Settanta

Pubblicato da Blicero il 11.07.2009

strage di stato

Il decennio più buio della storia d’Italia. Terrorismo. Stragi. Strategia della tensione. Una guerra civile sporca, strisciante. Gli anni Settanta – il grande rimosso nell’immaginario collettivo. Testimoniato dal recente, squallido dibattito sulla teoria del “Doppio Stato”, che ha visto sugli scudi il solito Pigi Battista1: gran parte degli sforzi giornalistici e storiografici degli ultimi 20 anni sono bollati come “misteriologia superstiziosa”, “racconto cospirazionista”, “ghirigori storiografici” e via delirando.

Fortunatamente una parte della letteratura si sta occupando di tenere viva la memoria. Parliamo degli anni ’70 con Simone Sarasso, autore di “Confine di Stato” e del recentissimo “Settanta“, rispettivamente primo e secondo capitolo della sua “Trilogia sporca” sui misteri d’Italia.

Che cosa sono questi Anni ’70?

La Privata Repubblica: Ne “Il paese mancato“, analisi storica dell’Italia dal “miracolo economico” al “riflusso”, Guido Crainz (ex militante di Lotta Continua) sostiene che dagli anni ’70 è uscito fuori un paese sostanzialmente disilluso e deresponsabilizzato. A livello socio-politico, i crimini di una manciata di assassini politici si sono stagliati sullo sfondo degli errori (crimini?) di un’ intera classe dirigente. O c’è stato di più?

Simone Sarasso: Gli anni Settanta sono anni fallimentari: fallisce il sogno della Rivoluzione e fallisce anche quello dell’Ordine. Poli opposti si armano e si addestrano per una guerra che tarda a scoppiare. Una guerra che non si combatte con eserciti e truppe corazzate, che non lascia sull’asfalto soldati ma civili. Tra il 1972 e il 1977 sono circa quattrocento le vittime del terrorismo (sia di destra che di sinistra): sono numeri impressionanti, fanno pensare a un conflitto di medie proporzioni; ma quel conflitto non arriva mai. L’ordine costituito non viene sovvertito nemmeno per un secondo, nemmeno durante il sequestro Moro. La transizione da Stato a Stato di Polizia è temporanea, transitoria. Persino dopo la bomba di Bologna, tutto torna come sempre; il Paese continua a reggersi in equilibrio sul centro. Un equilibrio (instabile) che durerà fino a metà dei Novanta.

LPR: Lo psicanalista Cesare Musatti scrisse nel 1978, dopo il suicidio di un giovane militante della sinistra extraparlamentare: “Non c’ è una grande differenza, psicologicamente, fra il giovane compagno suicida e il brigatista rosso […] Già il brigatista è consapevole che prima o poi cadrà sotto la sventagliata di mitra e non si preoccupa di questo, è indifferente alla vita propria e altrui. Perché? Perché si sente egli stesso un suicida”. Ma in “Settanta” c’è un personaggio (in cui personalmente ho riscontrato delle affinità con Buongiorno, notte di Bellocchio) che non è indifferente né alla propria vita, né a quella altrui…

SS: Il personaggio di Livia, la brigatista coi sensi di colpa, è un’ipostatizzazione di alcuni dei sentimenti che serpeggiavano nei meandri della banda armata sul finire del decennio. Persino nella Colonna Romana delle BR che portò a termine il sequestro c’era dissenso, c’erano ripensamenti: se si leggono i diari di alcune compagne, si scorge la paura. Quella che resta fuori dalle assemblee e dalle immagini del brigatista kamikaze che diffondono i giornali dell’epoca. E la cosa non dovrebbe stupire più di tanto: in guerra la paura salva la vita; guai se non ci fosse la paura. Guarda caso, le compagne che scrissero dei loro ripensamenti su quei diari, sono quasi tutte vive. I loro compagni che non temevano la sventagliata di mitra, sono caduti sotto quella pioggia di piombo.

LPR: Cito dalla relazione della commissione parlamentare sulle stragi: “La storia delle idee conosce pure momenti inerziali che si verificano quando un sistema di pensiero, un’ideologia, un progetto politico sopravvivono al di là del venir meno delle condizioni storiche in cui erano sorti, trovandovi giustificazione”. “Confine di Stato” si chiudeva (e si apriva) con la strage di Piazza Fontana; “Settanta” inizia con il “golpe Borghese”. Alcuni giornalisti, storici e intellettuali hanno intravisto in quella che comunemente viene definita strategia della tensione una serie strisciante e costante di colpi di stato (o almeno di tentativi di colpi di stato) a protezione del potere. È una tesi che condividi e che ha fondamento storico? Ha influenzato la stesura del tuo romanzo?

SS: Credo proprio che “colpo di Stato” sia l’espressione chiave per capire la storia della Prima Repubblica. Fin dalla sua genesi, con lo sbarco degli americani a due passi dalla liberazione, l’etica del blitzkrieg, della guerra lampo, del conflitto risolutivo che rimescola le carte è nel DNA del nostro Paese. Il punto è che il golpe non viene attuato quasi mai. Se si esclude l’intervento dello Zio Sam sul finire della Seconda Guerra Mondiale, non c’è traccia di un’altra presa di potere manu militari. C’è, tuttavia, notizia di svariate preparazioni al golpe. Il sogno rivoluzionario delle bande armate dei Settanta e il fine ultimo di Borghese, di Gladio, della P2 non sono poi così distanti negli esiti: cali il sipario sulla regnante mollezza al potere e sorga un giorno nuovo; un nuovo ordine. Un mondo nuovo.

Ma in un Paese come il nostro non c’è mai stato spazio per il cambiamento radicale. Non è mai stato nella natura del Centro, e il Centro è stato il vero e unico fulcro intorno a cui è ruotata la Prima Repubblica per tutta la sua esistenza.

LPR: Nel 1973 Henry Kissinger vinceva il premio Nobel per la pace – satira politica allo stato puro. Uno dei momenti migliori di “Settanta”, a mio avviso, è quello in cui lo Svedese (il segretario di Stato americano chiaramente ispirato a Kissinger) fa sesso (orale e non) con una ragazzina vietnamita mentre assiste all’assegnazione del Nobel davanti alla televisione. Come mai hai inserito questa scena nel libro?

SS: Il mio stile è caustico, lo sai. Le mie storie fanno male e la mia narrazione, generalmente, si muove per immagini scioccanti. Quella che tu hai citato è esattamente una di quelle: il grottesco al potere. La rappresentazione macabra e sanguinolenta dello stupro vietnamita perpetrato dall’amministrazione americana in cui lavorò il premio Nobel per la pace Henry Kissinger. Alla consegna dei premi, nel 1973, Le Duc Tho, il rappresentante vietnamita insignito della medesima onorificenza, non si presentò. Non ci andò nemmeno Kissinger, ma mandò qualcuno a ritirarlo, quel premio. Kissinger, evidentemente, sentiva di meritarlo.

Ecco: questa è l’istantanea schizofrenica dell’America di allora.

-

LPR: Il genere “poliziottesco” ha avuto il suo apice negli anni ’70. Il termine fu coniato dai critici cinematografici in termini dispregiativi. Negli ultimi anni abbiamo assistito, anche grazie a Tarantino, ad una rivalutazione del genere. Liquidati in fretta e furia come film d’azione, in realtà i poliziotteschi erano molto di più: fotografavano certe parti della realtà e fissavano nell’obiettivo determinati cambiamenti politici e sociali dell’epoca. Penso alla “trilogia del milieu” di F. Di Leo o a Io ho paura” di D. Damiani con G. M. Volontè. In “Settanta” il poliziottesco gioca un ruolo decisamente importante, e la figura di Nando Gatti ne incarna l’ascesa, il successo e il declino irreversibile…

SS: Occorre fare dei distinguo: i film che hai citato, specialmente quelli di Di Leo, sono effettivamente dei capolavori. Non si può dire lo stesso per il resto della produzione di genere di quegli anni. Penso in particolare ai film con Maurizio Merli protagonista: alcuni riuscitissimi, altri decisamente meno. Detto questo, rimane un significativo dato sociale: mai prima di allora si erano viste code chilometriche (nel vero senso della parola: in occasione della prima di Napoli violenta, la fila fuori dal cinema arrivò a bloccare le strade per diversi chilometri) per vedere il cinema italiano. Un effetto del genere, in principio di decennio, ce l’ebbero i colossi americani. Mai nessuno fece il miracolo prima dell’avvento del poliziesco all’italiana (quello che i critici definiscono “poliziottesco”). Toccò a Maurizio Merli metterla in saccoccia a Charles Bronson e Clint Eastwood. E non mi pare cosa da poco. Ecco perché ho deciso di mettere in primo piano nel romanzo un attore di quel grande circo mediatico.

LPR: In “Confine di Stato” i personaggi erano piuttosto piatti, bidimensionali e psicologicamente poco definiti. In Settanta ho notato una notevole evoluzione in tal senso – penso soprattutto alla figura dell’Omino, quella probabilmente meglio tratteggiata nell’arco di quasi 700 pagine. Ma la vera rivoluzione è stata praticata sul registro linguistico…

SS: La lingua è il vero atto rivoluzionario in Settanta. Mi sono documentato, ho annusato l’aria e ascoltato le conversazioni in strada; ho interpellato consulenti, li ho invitati a pranzo, li ho interrogati e registrati. Mi sono immedesimato, ho consultato dizionari, ho immaginato.

Alla fine ho stretto il narratore al collo e l’ho affogato nel parlato di ogni singolo personaggio.

Il risultato, imperfetto quanto imperfetta e in continua evoluzione è la lingua stessa, l’avete davanti agli occhi.

LPR: Parlando della sceneggiatura de “Il caso Mattei” (che tu hai già trattato in “Confine di Stato”), Tonino Guerra ha detto: “Il problema era la struttura, perché i documenti erano tanti, il materiale enorme, e se non lo si organizza il film poi non c’é, non si concentra. Però la struttura questa volta era quella di tanti tasselli che dovevamo comporre un quadro, ma rimanendo tasselli, formando un incastro”. Che metodo di lavoro hai usato per non annegare nel mare magnum della documentazione sul decennio più oscuro della storia repubblicana?

SS: Il lavoro che già avevo fatto su Confine di Stato mi ha dato una mano a restare a galla. C’è stata una prima fase in cui ho scremato l’enorme mole di documenti reperibili in rete secondo precise esigenze narrative. Poi ho approfondito nelle emeroteche e negli archivi. E alla fine, quando ancora le cose non quadravano (ne quadrano poche quando si va a caccia di colpevoli, quando si infilano le mani nella melma dei “Misteri d’Italia”), ho messo da parte lo storico e ho lasciato campo libero al narratore. È così il romanzo si è imbevuto d’ucronia.

LPR: Il presidente Argento non è Aldo Moro, ma il sequestro Argento è assimilabile al sequestro Moro – pur con tutte le sue differenze. Ne “L’affaire Moro” Sciascia scrive che, durante il sequestro, Moro si era accorto che ormai le “ore liete del potere” si erano irrimediabilmente tramutate nelle “macabre, oscene ore liete del potere”. In effetti in Italia il potere è sempre stato osceno, praticato fuori dalla scena pubblica, dietro le quinte – principalmente a salvaguardia di quel centro che tu definisci “cerniera infrangibile della complessità di un sogno chiamato Italia”…

SS: Che la dimensione pubblica non sia quella privilegiata per l’esercizio del potere in questo Paese è un fatto assodato. In tempi come quelli che racconto nel romanzo, inoltre, le forze in gioco per il controllo effettivo dello Stivale erano talmente tante che l’essenza stessa del dialogo politico diveniva cospirativa. Circospetta, “altrovista”, indiretta, mai sincera.

Non ci si stupisca, dunque, se, più o meno scientemente, in seno a quella Repubblica furono covate così tante serpi golpiste.

Via Caetani

LPR: Tempo fa Marco Paolini, riferendosi a Ustica (che ha portato in scena con il suo bellissimo “I-TIGI”), ha scritto: “Qualcuno troverà quelle prove e scriverà un libro intitolato USTICA e credo che non sarà un italiano. Per fortuna non sarà un italiano, un italiano non sarebbe credibile e il libro non sarebbe un best seller”.

Don DeLillo si è espresso sull’omicidio di JFK in termini analoghi: “Conosceremo mai la verità? Non lo so. Ma se un giorno dovessero saltare fuori le prove di un complotto, me le aspetterei molto più interessanti e appassionanti del romanzo [Libra]”. Nella tua postfazione scrivi: “Non c’è la Storia “pura”, qua dentro: piuttosto un’inestricabile mescolanza di Storia e finzione”. In attesa che qualcuno parli (se mai succederà) o che vengano fuori le prove (se mai verranno fuori), qual è il compito della letteratura nell’approcciarsi a determinati eventi storici? Può far luce di essi?

SS: Direi di no. Non è quello il compito della letteratura. Per “fare luce” ci sono la magistratura e la storiografia. La letteratura può fare solo ciò per cui è nata: tenere accesa la memoria; raccontare queste storie affinché non se ne perda traccia. Affinché, insieme alla lentezza della macchina giudiziaria, burocratica e documentaria, non lavori anche l’oblio al fine di seppellire il ricordo delle vittime.

LPR: Domanda a margine di quella precedente: Ustica sarà nel prossimo capitolo della “Trilogia sporca”?

SS: No. Di Ustica mi occuperò (con un piglio decisamente finzionale) in J.A.S.T., la prima serie TV su carta, scritta a sei mani con Lorenza Ghinelli e Daniele Rudoni, che sarà edita da Marsilio nel corso del 2010.

LPR: L’omicidio di JFK negli Stati Uniti è stato giustamente dissezionato in ogni sede culturale: saggi, romanzi (DeLillo, Ellroy, Mailer), film, etc. La stessa cosa è successa con la guerra in Vietnam e con il Watergate. In Italia si è assistito ad una rimozione pressoché totale degli anni di piombo e dei “misteri italiani” dal dibattito pubblico. Borges diceva che l’oblio “è solo una forma della memoria, il suo luogo sotterraneo”. Quali sono le ragioni sottese a questo oblio? Com’è possibile riportare la memoria in superficie?

SS: L’oblio è parte integrante del codice genetico del Paese. In Italia si fa presto a dimenticare, insabbiare, rimuovere, far finta di niente.

All’oblio si resiste in una sola maniera: narrando. Finché sopravviverà ricordo delle vittime, delle stragi, delle bombe e delle ingiustizie, rimarrà viva la voglia di saperne di più.

Finché ci sarà qualcuno a raccontarle, quelle storie non moriranno.

Simone Sarasso

  1. Che si è preso una bella licenza poetica, su input del Quirinale. []

Condividi

Drop the Hate / Commenti (3)

#1

Mario Uccella
Rilasciato il 11.07.09

Il Quirinale? Ah, quello dove sta l’ex ministro dell’Interno che all’arrivo al Viminale disse subito che non era stato messo lì per aprire gli armadi…
Le vittime del terrorismo ringraziarono.

#2

Settanta – La Privata Repubblica
Rilasciato il 11.07.09

[…] Prosegue Articolo Originale:  Settanta – La Privata Repubblica […]

#3

dj Charles Benson
Rilasciato il 30.12.12

” La transizione da Stato a Stato di Polizia è temporanea, transitoria. ”
No, purtroppo no. Tutti i morti nelle caserme, nelle prigioni e negli ospedali psichiatrici
stanno lì a dimostrarlo,
come anche le continue iniziative del parlamento e dei comuni in materia di videosorveglianza, regolamentazione dell’accesso a internet e controllo degli individui,
per non dimenticare delle torture in carcere e le irregolarità nei processi politici dei primi anni Ottanta.
Le restanti risposte sono interessanti e denotano intelligenza,
ma questa getta per me un ombra sulla consapevolezza storica dell’autore
e sull’intero progetto

Fomenta la discussione

Tag permesse: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>