L’eterna ‘invasione’: come la disinformazione condiziona il dibattito sull’immigrazione

Pubblicato da Blicero il 20.06.2018

7 – Tutti i crimini degli immigrati

Se una parte della rappresentazione dell’immigrazione è occupata dalla minaccia dell’«invasione», l’altra è caratterizzata da una formula che possiamo chiamare così: «tutti i crimini degli immigrati».

La prima componente di questa formula, dice Valeria Lai, è la rappresentazione dell’immigrazione

come emergenza e come problema da risolvere dove i migranti sono sempre vittime o criminali; le narrazioni sull’immigrazione rimandano ai problemi di ordine pubblico, a quelli legati alla sicurezza delle persone e alla difficile convivenza tra culture differenti.

La seconda attiene alla dimensione stilistica; ossia: «il tema viene affrontato e delineato anche e soprattutto attraverso specifiche strutture linguistiche, stili narrativi e spazi comunicativi dedicati». A loro volta, sempre seguendo lo schema di Tracciare confini, queste strutture seguono due trend specifici:

1) Il «rumore di fondo»: «Piccoli avvenimenti con protagonisti stranieri “incorniciano” le notizie del giorno in un rumore continuo che fa da sfondo all’informazione italiana [e] restituisce un’immagine dell’immigrazione come unicamente negativa. […] La forza delle small news riguardanti tematiche di rilievo per l’opinione pubblica è tale proprio perché descrivono l’ambiente sociale nel quale vivono gli individui e si insinuano nella loro stessa quotidianità»;

2) Le «ondate emotive»: «Un episodio o un gruppo di persone viene definito come minaccia per i valori di una società; i mass media ne presentano la natura in modo stereotipico, commentatori, politici e altre autorità erigono barricate morali e si pronunciano in diagnosi e rimedi finché l’episodio scompare o ritorna ad occupare la posizione precedentemente ricoperta nelle preoccupazioni collettive».

Uno schema di questo tipo, per quanto «comodo» perché ripetibile in serie, porta con sé enormi problemi e produce non poche distorsioni. Secondo la professoressa Paola Panarai, l’origine di questa specifica modalità d’informazione

è rintracciabile in fattori diversi: le routine giornalistiche, le dinamiche della cultura professionale, la competizione tra testate, la relazione con le fonti (soprattutto nella cronaca nera), la debolezza delle norme, ma forse anche pregiudizi e timori diffusi tanto nei media quanto nell’opinione pubblica. Ne deriva un effetto perverso per cui gli operatori dell’informazione riflettono il sentire comune e si trovano da una parte a interpretare sentimenti di paura e diffendenza sociale, dall’altra – talvolta loro malgrado – ad alimentarli.

Negli ultimi anni, poi, questi «effetti perversi» si sono concentrati su temi specifici: la paura della criminalità, la sicurezza personale, la sicurezza urbana, la paura del terrorismo, la salute collettiva, l’impossibilità della convivenza (declinato anche in «scontro di civiltà»), e altro ancora.

8 – «Rumeni a mano armata»

Molte ricerche e diversi osservatori concordano sul fatto che il bienno 2007-2008 sia stato un autentico spartiacque nel racconto mediatico dell’immigrazione in Italia.

L’evento scatenante è l’omicidio di Giovanna Reggiani a Roma, commesso da un cittadino rom di origine rumena tra l’ottobre e il novembre del 2007. Il delitto solleva un’«ondata emotiva» senza precedenti, che si estrinseca in una feroce campagna politico-mediatica assolutamente trasversale.

Walter Veltroni, all’epoca sindaco di Roma e segretario del neonato Partito Democratico, dichiara addirittura che «prima dell’ingresso della Romania nell’Unione Europea, Roma era la città più sicura del mondo» e chiede il pugno duro contro il paese che avrebbe aperto i «boccaporti». Beppe Grillo, sul suo blog, lancia un durissimo anatema contro le «decine di migliaia di rom della Romania che arrivano in Italia»:

Ricevo ogni giorno centinaia di lettere sui rom. È un vulcano, una bomba a tempo. Va disinnescata. Un governo che non garantisce la sicurezza dei suoi cittadini a cosa serve, cosa governa? Chi paga per questa insicurezza sono i più deboli, gli anziani, chi vive nelle periferie, nelle case popolari. Una volta i confini della Patria erano sacri, i politici li hanno sconsacrati.

Pressato dai media e dai partiti – che si concentrano ossessivamente su tutti i crimini dei rumeni, e imprimono nell’opinione pubblica l’equazione rumeno = rom = criminale – il governo di Romano Prodi licenzia in fretta e furia un decreto legge per espellere i cittadini comunitari considerati «a rischio» – cioè i rumeni. La misura, oltre ad attirare le veementi proteste di giuristi e organizzazioni umanitarie, causa una mezza crisi diplomatica con la Romania.

Gli effetti di lungo termine sono ancora più devastanti: secondo il sociologo ed ex senatore Luigi Manconi, «ciò che veniva solo sussurrato in alcuni ambienti sociali e politici poco significativi si [fa] discorso elettorale»; in più, «il ricorso alla stigmatizzazione del diverso da noi” diventa “il principale strumento di molta parte del ceto politico».

L’anno successivo, i rom – che secondo un sondaggio effettuato dal Pew Research Center sono visti sfavorevolmente dall’86% degli italiani – assumono le fattezze di una calamità naturale. Il 21 maggio 2008, il presidente del consiglio Silvio Berlusconi decreta lo «stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi» nelle regioni Lazio, Campania e Lombardia. Si apre dunque una stagione di grandi sgomberi, trasferimenti forzosi, fotosegnalamenti (anche di minori) e costruzione di decine e decine di insediamenti nelle periferie delle grandi città, con l’implicito obiettivo di «proteggere simbolicamente il resto del territorio dal rischio della contaminazione».

Sebbene l’operazione si concluda nel 2011 e venga dichiarata illegittima dal Consiglio di Stato e dalla Corte di Cassazione, la logica emergenziale si normalizza e comporta una serie di pesanti conseguenze sul piano giuridico, politico e sociale. In primo luogo, scrive sempre Manconi, i campi sono

causa ed effetto della discriminazione ai danni di rom e sinti: producono, infatti, due processi strettamente correlati che si alimentano vicendevolmente […]. I rom presenti nei campi tendono inevitabilmente ad autoghettizzarsi dentro quella dimensione circoscritta e coatta di marginalità sociale e autogoverno, dove si riproducono circuiti illegali e relazioni di potere. Per contro, chi abita vicino a quei campi si convince del fatto che rappresentino una costante minaccia e, dunque, oscilla tra volontà di chiuderli in maniera definitiva e tentazione di “spazzarli via” con ogni mezzo.

In secondo luogo, i campi spostano ingenti quantità di denaro pubblico (su cui si è avventata la criminalità organizzata, come emerso dall’inchiesta Mafia Capitale). Infine, i campi e i suoi abitanti costituiscono un inesauribile serbatoio di storie ad alto tasso di indignazione. Su queste, sia i media che la politica puntualmente imbastiscono campagne e mobilitazioni che non mirano mai a un reale superamento dei problemi, ma a «trasferire il disagio patito da ampi strati popolari sul piano pubblico, trasformandolo in risorsa politica».

Il che è esattamente quello che si tenta di fare a Boccea nel 2015, un quartiere di Roma in cui si innesca un’altra, travolgente «ondata emotiva».

8 – Etnicizzazione di un reato: il caso Battistini

Nel tardo pomeriggio del 27 maggio 2015, una Lancia Lybra in fuga dalla polizia si abbatte sui passanti in via Battistini, uccidendo la 44enne Corazon Perez Abordo. Nella macchina ci sono tre persone di etnia rom: hanno tra i 17 e i 19 anni, e risiedono nel campo «tollerato» di via della Monachina. Due di loro riescono a scappare.

L’episodio apre quasi tutti i telegiornali e i siti dei quotidiani. E chiaramente, le reazioni non si fanno attendere – è come se, di colpo, si fosse sturato uno scarico. Il quotidiano Il Tempo dedica all’accaduto la prima pagina, mettendo la foto dell’incidente e il provocatorio titolo «Saluti da rom». Nell’editoriale principale, il direttore Gian Marco Chiocci punta il dito contro gli «ipocriti moralisti»: «Per una volta mettete via il perbenismo d’accatto e ascoltati silenti la rabbia del popolo di Roma. Non rilasciate patenti razziste a chi vuol farsi giustizia da solo».

Anche Giorgia Meloni, in uno status sulla sua pagina, accusa i «buonisti»: «Auto con tre rom fugge alla polizia, investe e uccide una donna e ferisce altre sei persone. Di fronte a delinquenti senza legge che rubano e uccidono il buonismo è complicità. Ora BASTA!» Matteo Salvini, sempre su Facebook, invoca la «RUSPA!!!!!» e promette che «quando torneremo al governo, raderemo al suolo uno per uno tutti ‘sti maledetti Campi Rom, partendo da quelli abusivi».

Intuita la piega che ha preso il dibattito, una manciata di voci tenta di placare l’isteria mediatica e separare la responsabilità personale di chi guidava l’auto da quella di un’intera comunità. «Se c’è un rom o un rumeno di mezzo», scrive il giornalista de L’Espresso Emiliano Fittipaldi, «l’opinione pubblica, i media e i politici si eccitano, e l’incidente non viene trattato come una drammatica vicenda di cronaca giudiziaria, ma diventa questione razziale». La 21 Luglio – un’associazione che si occupa dei diritti di rom e sinti in Italia – fa notare che l’«etnicizzazione del reato» rischia di «esacerbare il già esasperato clima di ostilità e odio diffuso nell’opinione pubblica nei confronti di rom e sinti».

Naturalmente, nessuno dà retta a questi avvertimenti. Anzi: il quartiere si tramuta in un teatro di battaglia politica. Nell’arco di una settimana si susseguono delle presunte «fiaccolate spontanee», che in breve diventano raduni di militanti di estrema destra travestiti da «cittadini indignati». La polizia intanto, grazie al contributo decisivo della madre di un ragazzo, arresta i due fuggitivi.

Sembra finita qui – ma non lo è ancora. Il gip convalida il fermo di uno dei due ma ne dispone la scarcerazione, ritenendo non sussistenti gli elementi di colpevolezza (non era, infatti, alla guida). La decisione scatena di nuovo il putiferio, facendo schizzare l’intensità dell’«ondata emotiva». A tal proposito, il commento più duro non arriva da un politico di estrema destra; ma da un giornalista moderato come Massimo Gramellini. In un Buongiorno sarcasticamente intitolato «Diritto romano», Gramellini critica così la magistratura:

Chi ha applicato la legge col paraocchi è consapevole che a Roma c’è un quartiere blindato, dove i fascisti di Casa Pound soffiano sull’animo risentito degli abitanti? I fomentatori di odio ringrazieranno per il pacco dono di una liberazione immediata che si fa beffe del senso comune e delle forme elementari di prudenza. Se esiste un sistema legale per fomentare il razzismo, questa decisione lo ha brevettato.

Il cerchio, insomma, si chiude. Non solo una colpa personale si è riversata collettivamente su un’etnia, ma i rom (cioè gli Altri per eccellenza) dovrebbero sottostare a un altro sistema legale per non essere – giustamente, no? – linciati.  In questo quadro, annota Luigi Manconi, i «rom rapprentano, tra i diversi gruppi sociali e le diverse minoranze – in una sorta di cupa gerarchia dell’odio – il gradino più basso e quindi il bersaglio privilegiato della macchina del pregiudizio».

E i media sembrano ben contenti di fissare questa gerarchia, perché dopotutto – usando le parole di Tracciare confini – il «cittadino immigrato [poco importa che i rom coinvolti nell’incidente fossero nati in Italia; nella percezione comune e mediale rimangono comunque stranieri, NdA]» non deve mai essere «colto e presentato nella sua particolarità, nella sua cultura», ma deve essere «incanalato secondo le regole e le routine dei mezzi di informazione, quasi investiti da un compito messianico».

9 – «Dopo la miseria, portano le malattie»

Stando a quanto ha dichiarato la direttrice dell’ufficio europeo dell’Organizzazione mondiale della sanità Zsuzsanna Jakab, la percentuale di migranti «che arrivano in stato di salute compromesso è compresa tra il 2 e il 5%, e si tratta di patologie dell’apparato cardiocircolatorio, mentale o legate allo stato di gravidanza, ma per lo più sono ferite dovute a incidenti».

Eppure, come si può vedere dall doppia prima pagina qui sopra, negli ultimi anni l’informazione e la politica italiana si sono buttati a pesce sul filone delle malattie «sconosciute» e «debellate» da secoli che ritornano a causa dei migranti. Intendiamoci: anche in questo caso non c’è nulla di nuovo; da secoli la figura dello «straniero untore» fa sempre molta presa sulla popolazione.

A ogni modo, i titoli di Libero e Il Tempo si riferiscono al caso di una bambina di quattro anni morta dopo aver contratto la malaria all’ospedale Santa Chiara di Trento, dove erano ricoverate due bambini di una famiglia originaria del Burkina Faso, ammalatisi dopo un soggiorno nel paese.

Fin da subito le cause del contagio erano apparse tutt’altro che chiare. La correlazione, cioè, era tutta da provare. La solita routine giornalistica – a cui si è subito aggiunta la polemica politica – imponeva però di trovare immediamente un nesso causa-effetto. Il sommario di Libero, a tal proposito, non potrebbe essere più chiaro: «Immigrati affetti da morbi letali diffondono infezioni. Basta che una zanzara punga prima un malato e poi uno sano e quest’ultimo muore. Il governo se ne disinteressa e insiste con l’accoglienza».

Come scrive Giovanni Maria Bellu sul sito di Carta di Roma, l’operazione è il massimo della scorrettezza deontologica e professionale: «A partire da un caso unico, verificatosi in circostanze ancora in via di accertamento, di un contagio all’interno delle mura di un ospedale, si tenta di accreditare l’idea che gli immigrati (gli stessi che stuprano, come suggerisce il catenaccio di Libero), portano anche malattie letali». L’immagine del contagio esteso a tutta la società – aggiunge – è «corroborata da una descrizione del processo di trasmissione della malaria analogo, negli effetti, al morso di un cobra».

Gli accertamenti dell’Istituto Superiore della Sanità, naturalmente, consegnano una versione completamente diversa e individuano la causa reale in un errore medico involontario di un’infermeria, che per questo è finita nel registro degli indagati della Procura di Trento.

Se finora ho parlato di un caso singolo che diventa collettivo per la semplice presenza di stranieri, nel 2014 si è registrata invece un’«ondata emotiva» – contrassegnata da notevoli picchi di xenofobia – legata a due epidemie provenienti da lontano: quella dell’ebola (scoppiata nell’Africa centrale) e della TBC. Quest’ultima è stata in primo luogo pompata da alcuni sindacati di polizia, e successivamente da Beppe Grillo sul blog.

Per quanto riguarda la prima, invece, la psicosi generata dai media – che rilanciavano qualsiasi tipo di segnalazione sospetta, senza alcun tipo di verifica o contestualizzazione – ha creato le condizioni per un più vasto discorso d’odio generatosi sui social network. Nel marzo del 2014, ad esempio, diventa virale il testo di una lettera aperta vergata da una fantomatica «Madre italiana», in cui l’autrice avvertiva che c’erano già tutte le condizioni per importare l’ebola in Italia:

i migranti viaggiano stipati uno addosso all’altro per ore in mare e lo scambio di umori in quella situazione è più facile che mai e nei centri di accoglienza idem, IN QUELLE CONDIZIONI NE BASTA UNO INFETTO per portarci alla catastrofe.

C’è anche chi sfrutta il clima di paranoia lanciando notizie completamente false. Il sito di bufale CorriereSalute titola sull’arrivo di Ebola in Italia a Lampedusa – una notizia di cui «ancora le tv non ne parlano». Il testo dello «scoop», che arriva a più di 20mila like su Facebook prima di essere rimosso, recita: «Secondo alcune voci sul posto, alcuni individui presentano degli stati influenzali molto simili alla fase d’incubazione dell’ebola. Le autorità sanitarie insieme all’esercito stanno programmando l’isolamento dell’isola in caso di contagio. Si pensa che tra altri extracomunitari sbarcati sulle coste siciliane, la possibilità di soggetti infetti e molto alta».

Intrecciandosi con i meccanismi dell’informazione e (soprattutto) della disinformazione, l’Ebola è a tutti gli effetti un virus che si presta benissimo a infiammare l’isteria complottista e causare slittamenti razzisti. I motivi sono svariati: anzitutto, non esiste una cura definitiva. Proprio per questo, mass media e cultura pop hanno usato a ripetizione l’Ebola come espediente narrativo per immaginare la fine della civiltà (soprattutto occidentale). Basta pensare a film apocalittici quali Virus letale (1995), in cui lo scenario è quello di una pandemia incontrollabile che nemmeno il governo più potente del mondo è in grado di arginare.

L’immagine di eserciti per strada e cadaveri ammassati alla rinfusa nelle metropoli si sovrappone e si mescola alla paura più pressante dell’«invasione» di migranti, che insieme ai corpi «ingombranti» e alla cultura diversa porterebbero anche le loro malattie «esotiche». Come si vede dagli articoli e dai post riportarti sopra, il terrore per l’Ebola – un virus con cui non si può scendere a patti – deve essere necessariamente razionalizzato, in modo da farlo incarnare in un nemico a cui addossare la colpa. E in questo caso il «clandestino», buono per ogni stagione ed evenienza, è il perfetto caprio espiatorio.

10 – I «cittadini indignati» sui treni

Verso la metà dell’agosto 2016, il video qui sopra è iniziato a girare alla follia su Internet. Il contenuto è piuttosto semplice: si vede un uomo che, puntandosi il telefono in faccia e facendo un’espressione corrucciata, percorre un treno regionale e inquadra diversi passeggeri di origine straniera. Poi arriva lo sfogo: a suo dire, il controllore avrebbe graziato gli «extracomunitari» sprovvisti di biglietto. «Facciamo piangere in Italia», dice il protagonista del video, «poi ci lamentiamo se questi extracomunitari vengono, ci prendono per il culo e cagano il cazzo e basta».

L’autore è Fede Rossi, una «Facebook star» che è riuscito ad accumulare un nutrito seguito sui social attraverso quello che ho definito «marketing dell’ignoranza». Lanciato da un’intervista di Andrea Diprè, il core business di Fede Rossi è rappresentato da vlog (postati anche su un canale YouTube) in cui affronta sostanzialmente tre temi ricorrenti: l’incremento della massa muscolare e il disamore verso i «secchi di merda»; l’analisi «postmoderna» e sessista della figura femminile contemporanea (con particolare accanimento verso le «cagne», le «tipe che aprono le gambe con una velocità che al confronto Flash non saprebbe fare di meglio», colpevoli di sminuire la categoria delle «vere donne») e, appunto, l’interpretazione gentista di fatti politici e di cronaca.

Quest’ultimo aspetto si è dilatato nei suoi video, finendo sempre di più per far assomigliare Fede Rossi a un personaggio uscito da una puntata di Black Mirror. Per restare nel 2016, Rossi si è occupato degli attentati di Parigi, di migranti che chiedono il wi-fi e protestano per le loro condizioni, di legittima difesa, di Brexit, dell’omicidio razzista di Fermo, e appunto delle presunte differenze di trattamento fra italiani ed immigrati quando si tratta di timbrare il biglietto sul treno.

Tuttavia, non è la prima volta che un contenuto di questo genere diventa virale – anzi, si può tranquillamente dire che il filone cittadini-indignati-contro-stranieri-sui-treni (e più in generale sui mezzi pubblici) sia uno dei più floridi e gettonati, proprio perché rientra nelle cosidette small news e riguarda la quotidianità di moltissime persone.

A riprova di ciò c’è un altro caso emblematico nato e diffusosi su Facebook – il caso del «rifugiato sul Frecciarossa senza biglietto». Il 12 febbraio del 2018, in piena campagna elettorale, un passeggero di un Frecciarossa Roma-Milano pubblica su Facebook la foto di un ragazzo nero sul treno con un lungo status.

Secondo il racconto di Luca Caruso, l’uomo nell’immagine – «di cui non mi interessa nascondere la fisionomia», scrive – viaggiava senza biglietto adatto, non parlava italiano, non aveva soldi né bagagli, ma possedeva invece un «Samsumg S8». Quando gli si è avvicinata la capotreno («minuta, esile e giovane, nonché educatissima»), il ragazzo avrebbe abbassato il berretto sugli occhi e fatto finta di dormire.

Caruso lamentava poi «la totale assenza di certezza della pena che il nostro paese ha regalato a queste persone che non sono più disponibile a chiamare “rifugiati”» e associava l’episodio a Pamela Mastropietro, «barbarizzata e vilipesa da gente che senza diritto e senza motivo ha varcato l’uscio di casa nostra, perché la porta era ed è spalancata. Senza regole. Senza alcuna sicurezza». Il post si concludeva così:

Questo sta andando a Milano senza alcun bagaglio. Non ha pagato un biglietto e dice di non avere soldi. Non parla la nostra lingua. Parlano di integrazione. Di comprensione. Di accoglienza. Ci prendono per il culo e noi li tolleriamo. E ora mi raccomando scannatevi tra «razzista» e «buonista» eh…. Taccio.

Nel corso della giornata il post diventa virale, ricevendo 120mila like e più di 70mila condivisioni. La maggior pare dei commenti ha un tono offensivo e razzista nei confronti dei migranti, nei confronti dei quali «non si deve avere pietà» e «vanno riaperte le camere a gas». Diversi utenti e giornalisti non sono però convinti della veridicità della storia raccontata da Caruso. Che, sorpresa!, risulta completamente falsa.

Interpellata da Valigia Blu, Trenitalia fornisce la relazione ufficiale della capotreno, in cui si legge che «il passeggero  non parlava italiano, il suo inglese era stentato ed era sprovvisto di documenti, ma  aveva con sé due biglietti» – uno dei quali valido per il Frecciarossa. Alla fine, dunque, Caruso ha rimosso il post. Eppure, come riassume Angelo Romano, «restano impressi i commenti razzisti, il linciaggio pubblico e la situazione di una situazione esplosiva sempre più prossima ad accendersi per la benzina gettata irresponsabilmente – bacheche Facebook incluse».

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Drop the Hate / Commenti (4)

#1

L’accattonaggio che uccide – Marco Gallicani
Rilasciato il 01.08.18

[…] la politica delle “frontiere chiuse” crea un aumento dell’immigrazione illegale, che provoca un senso di insicurezza fra gli abitanti dei paesi di destinazione, il quale mette a rischio l’integrazione dei nuovi arrivati e quindi il successo delle politiche […]

#2

Aprite i porti, lo dico per voi – Marco Gallicani
Rilasciato il 01.08.18

[…] la politica delle “frontiere chiuse” crea un aumento dell’immigrazione illegale, che provoca un senso di insicurezza fra gli abitanti dei paesi di destinazione, il quale mette a rischio l’integrazione dei nuovi arrivati e quindi il successo delle politiche […]

#3

Aprite i porti: sull’adesione a Welcoming Europe – Marco Gallicani
Rilasciato il 01.08.18

[…] la politica delle “frontiere chiuse” crea un aumento dell’immigrazione illegale, che provoca un senso di insicurezza fra gli abitanti dei paesi di destinazione, il quale mette a rischio l’integrazione dei nuovi arrivati e quindi il successo delle politiche […]

#4

Sull’adesione a Welcoming Europe – Marco Gallicani
Rilasciato il 01.08.18

[…] la politica delle “frontiere chiuse” crea un aumento dell’immigrazione illegale, che provoca un senso di insicurezza fra gli abitanti dei paesi di destinazione, il quale mette a rischio l’integrazione dei nuovi arrivati e quindi il successo delle politiche […]

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