L’eterna ‘invasione’: come la disinformazione condiziona il dibattito sull’immigrazione

Pubblicato da Blicero il 20.06.2018

5 – L’eterna «invasione»

Stando a questi numeri, insomma, l’Italia si percepisce come un paese «assediato» e sotto «invasione» – e i media (insieme alla politica) da un lato assecondano questa narrazione; e dall’altro, come vedremo, la creano e la fomentano.

L’immagine principe, quella con cui l’audience è continuamente bombardata, è quella degli «sbarchi dei disperati» con le «carrette del mare» sulle coste italiane. Eppure, ricorda Marco Binotto in Tracciare confini, statisticamente «l’arrivo avviene in prevalenza in modo disperso attraverso ingressi legali che poi ricadono nell’irregolarità. Oppure giunge tramite un flusso pulviscolare di ingressi clandestini». Nella percezione pubblica e mediale, continua, non è così: «l’immigrazione assume al contrario questa immagine disperata, caotica e ingovernabile». Quella di un’«invasione», appunto.

A farla da padrone, pertanto, è sempre e comunque il frame dell’allarme al cui interno «si insiste sulla “conquista” (da parte degli “invasori”) e sulla “difesa” (che spetta agli autoctoni) di un territorio». Una tale dimensione “territoriale», scrive Marco Bruno, richiama ad una

concezione chiaramente ancora emergenziale e patologica dei flussi migratori (potremmo dire pre-moderna): come se nel discorso pubblico e nella società italiana non fosse ancora interiorizzata la realtà – ormai trentennale – di non essere più un luogo di partenza ma un luogo di approdo dei progetti migratori.

Un caso eclatante di questa «concezione emergenziale e patologica dei flussi» è rappresentato dalla protesta che si è svolta a Gorino nell’ottobre del 2016. A un certo punto, nel piccolo paese di 600 anime sul delta del Po emiliano inizia a circolare la voce che sarebbero arrivati cinquanta o sessanta migranti nell’unico ostello-bar della zona – effettivamente requisito dalla Prefettura di Ferrara.

La reazione della comunità locale all’arrivo del bus con i migranti (che alla fine erano dodici donne richiedienti asilo, di cui una incinta di 8 mesi) non si fa attendere: i cittadini scaricano dei bancali di legno sull’unica strada che collega Gorino con il resto del mondo, e fanno le barricate spalleggiati da politici locali della Lega.

Le migranti non arriveranno mai; ma dopotutto, nessuno le aveva mai volute sin dall’inizio. Un articolo di Marco Imarisio sul Corriere della Sera, ad esempio, riporta alcune voci dei residenti che dimostrano quanto a fondo sia penetrata la logica dell’«invasione» – anche in luoghi in cui la presenza di migranti è pari a zero.

«Siamo gente chiusa. Ogni città ci sembra una metropoli. Abbiamo la nostra quotidianità e non accettiamo che venga intaccata da stranieri», dice uno. «Noi siamo un paesino pulito, non possiamo accettare che ce lo sporchino», aggiunge un altro. «Giusto, e poi si sa come vanno queste cose», chiosa un altro ancora. «Dicono undici donne e subito dopo ci mandano i maschi, avranno pur dei mariti, e così diventa un’invasione».

Tornando all’analisi del frame dell’«invasione» pompato dai media, si rintracciano almeno due tendenze qualitative e quantitative:

1) L’estremo provincialismo dei media italiani, che pongono l’enfasi – scrive Valeria Lai – al «solo momento dell’arrivo, spesso senza un’adeguata argomentazione delle cause o delle motivazioni del viaggio, tralasciando una riflessione anche sui macrofenomeni come la globalizzazione economica, le crisi internazionali e i conflitti»;

2) L’alterazione della dimensione quantitativa del fenomeno da parte dei mezzi di informazione e di alcuni partiti politici, a cui è strettamente connessa la «deformazione della percezione sociale» (ossia: «l’immigrazione come invasione dell’Italia da parte di avventurieri provenienti da paesi poveri») che alimenta nell’opinione pubblica una «sindrome da assedio».

Questa sindrome, poi, è ulteriormente esasperata da toni paranoici e complottisti che hanno mostrato una sorprendente capacità di penetrazione nell’agenda pubblica, nonché delle ricadute estremamente concrete sulle strade.

6 – Il fantasma della «grande sostituzione»

La teoria del Grand Remplacement (la «grande sostituzione») è stata espressa per la prima volta nel 2011 dallo scrittore francese Renaud Camus – ex militante del Partito Socialista negli anni ’70 e ’80, più volte accusato pubblicamente di antisemitismo, e poi diventato pensatore influente nell’estrema destra identitaria francese (un’etichetta in cui non si riconosce, nonostante abbia fatto campagna per Marine Le Pen).

In breve, Camus sostiene che in Francia – ma non solo – i francesi «di ceppo» (de souche) siano in procinto di essere «sostituiti etnicamente» dalle popolazioni del Nord Africa. La «grande sostituzione», ha scritto il giornalista Guido Caldiron, delinea quindi «i contorni di un complotto per rimpiazzare i popoli dell’Europa con gli immigrati».

Negli anni della crisi, la tesi della «sostituzione di popoli» è diventato una “sorta di passepartout ideologico dell’estrema destra europea» che «cela in realtà a fatica, sotto una vaga verniciatura sociale o culturale, il proprio portato di fondo, quello di definire i contorni di una minaccia esistenziale, identitaria, più o meno apertamente “razziale”».

Coniugando una visione paranoica a una dimensione cospirativa «riassumibile nella sopravvivenza o meno» dell’«Europa bianca», prosegue Caldiron, la posizione «svela da un lato il volto intrinsecamente razzista delle campagne anti-immigrati e contribuisce dall’altro implicitamente a tracciare quella sorta di linea invisibile che, data l’ampiezza del ‘pericolo’ annunciato, si può essere pronti a varcare per passare dalla parole ai fatti».

Non ci è voluto molto perché la teoria della «sostituzione etnica» sfondasse nel dibattito pubblico in Italia. I suoi iniziali – e più entusiasti – propagatori sono stati i partiti di estrema destra, CasaPound e Forza Nuova su tutti. Fiutando l’aria, leader della destra istituzionale come Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno iniziato a usarlo nei loro discorsi, contribuendo a inoculare questo concetto nell’opinione pubblica.

Il segretario della Lega, in particolare, ha evocato la minaccia della «grande sostituzione» più e più volte, facendone un suo cavallo di battaglia. Nel marzo del 2017, ad esempio, Salvini si è recato fuori dalla caserma Montello di Milano – che ospita 300 richiedenti asilo – per denunciare l’«ennesimo caso di tentativo di sostituzione etica in corso».

In parallelo alla suggestione della «grande sostituzione» si è fatta strada una teoria ancora più estrema – quella che risponde al nome di «piano Kalergi». Secondo la letteratura complottista, il Piano teorizzerebbe l’esistenza di un «genocidio programmato dei popoli europei» che sfrutta l’immigrazione di massa per «distruggere completamente il volto del Vecchio continente». L’obiettivo finale sarebbe l’incrocio dei «popoli europei con razze asiatiche e di colore, per creare un gregge multietnico senza qualità e facilmente dominabile dall’élite al potere».

Il diabolico ideatore di questo sterminio studiato a tavolino sarebbe il conte Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, un aristocratico austro-giapponese nato nel 1894 e morto nel 1972. Considerato uno dei primi uomini politici a proporre il progetto di un’Europa unita, nei primi anni Venti del Novecento Kalergi (che era iscritto a una loggia massonica) pubblica il manifesto Pan-Europa e fonda l’associazione Unione Paneuropea. Naturalmente, in nessuno si parla di un «piano» per il genocidio dei bianchi europei.

Nonostante abbia esercitato una certa influenza a livello teorico ed esista ancora oggi un premio che porta il suo nome, il pensiero e il personaggio di Kalergi sono rimasti pressoché sconosciuti al grande pubblico. Questo almeno fino ai primi anni Duemila, quando l’estrema destra l’ha recuperato – dietro opportuni stravolgimenti.

Le basi le ha gettate Gerd Honsik – un neonazista austriaco pluricondannato per negazionismo dell’Olocausto – nel libro Addio, Europa. Il Piano Kalergi, pubblicato mentre è latitante in Spagna. Utilizzando gli scritti di Kalergi come un juke-box, Honsik ha «svelato» l’esistenza di questo enorme complotto con un abile operazione di estrazione e decontestualizzazione.

Le elucubrazioni di Honsik arrivano in Italia tra la fine degli anni Duemila e l’inizio degli anni ’10, ma rimangono confinate in siti come Italiasociale.net («il periodico del nazionalsocialismo») e Identità.com. Lo sganciamento dall’orbita dell’estrema destra avviene dopo la strage di Lampedusa del 2013 e durante la crisi dei migranti nel 2015.

Del fantomatico Piano Kalergi si interessano – tra gli altri – Magdi Allam, il cantante Giuseppe Povia e Claudio Messora (titolare di Byoblu ed ex responsabile comunicazione del MoVimento 5 Stelle) che ne parla sul suo blog e a La Gabbia. E l’ex trasmissione condotta dal neo-parlamentare grillino Gianluigi Paragone è senza ombra di dubbio l’organo di informazione che sdogana maggiormente il complotto.

Nel marzo del 2016, infatti, viene messo in onda un delirante servizio di «Nessuno» – personaggio fittizio dietro cui si cela il giornalista de La Verità Francesco Borgonovo (il quale collabora anche con Il primato nazionale, la rivista dei «fascisti del terzo millennio») – dove si asserisce addirittura che Laura Boldrini starebbe tramando per la «grande invasione».

In appena un decennio, dunque, la fantasia di un estremista austriaco ha invaso le prime serate televisive ed è assurta al rango di legittima argomentazione politica. A ben vedere, però, le premesse perché si arrivasse a un simile epilogo c’erano tutte. Secondo il professore Michael Barkun, autore del saggio A culture of conspiracy, le teorie del complotto funzionano quando «creano un senso in una realtà che altrimenti è troppo confusa, e lo fanno in una maniera semplice e accessibile, dividendo il mondo tra le forze del bene e quelle male». Un’altra attrattiva delle le teorie è che «spesso e volentieri sono presentate come un sapere speciale e segreto, sconosciuto alle masse sottoposte al lavaggio del cervello».

Ma, sempre per Barkun, il successo di una teoria del complotto comporta diversi pericoli, tra cui «l’ipersemplificazione del processo politico» e la «ricerca di un capro espiatorio su cui riversare tutte le colpe». In questo senso, non è assolutamente un caso che il «piano Kalergi» sia divenuto un argomento mediatico e politico in grado di «spiegare» l’immigrazione. Non solo si compattano audience, seguaci ed elettorato contro i colpevoli – i Poteri Forti, Laura Boldrini, i «clandestini» – ma si offre loro il brivido di accedere ad un livello di conoscenza superiore.

E non solo: sia la «sostituzione etnica» che il «piano Kalergi» – pur essendo spesso confuse l’una con l’altra – sono diventate argomentazioni valide anche per protestare offline contro i centri d’accoglienza. Come, ad esempio, è successo a Fiumicino. Nel luglio del 2016 la prefettura decide di mettere circa venti richiedenti asilo in un residence della cittadina laziale, e per questo si scatena una protesta immediatamente cavalcata da militanti di estrema destra.

Nel servizio del TG3 che ben racconta la gazzarra, a un certo punto si sente un signore dire: «Qua c’è una sostituzione di un intero popolo, ok? Un genocidio di una razza intera – la razza bianca».

Poco dopo, il servizio riprende lo scambio tra un residente e una signora anziana. Il primo cerca di rassicurare la seconda sull’arrivo dei migranti. «Non è un pericolo, sono persone umane come tutti quanti noi», dice. «Certo, so’ persone umane, ma dovrebbero fare gli umani!», risponde la signora. «Da quello che si vede in televisione non sono umani!»

Quest’ultima frase, seppur pronunciata in un contesto locale e in una circostanza specifica, permette però di introdurre un altro tema cruciale – ossia la rappresentazione del migrante nel racconto giornalistico quotidiano. Una figura, citando ancora Tracciare confini, che si riassume così: «un criminale dalla personalità schiacciata soprattutto sul dettaglio della nazionalità o della provienienza “etnica”».

Condividi

Drop the Hate / Commenti (4)

#1

L’accattonaggio che uccide – Marco Gallicani
Rilasciato il 01.08.18

[…] la politica delle “frontiere chiuse” crea un aumento dell’immigrazione illegale, che provoca un senso di insicurezza fra gli abitanti dei paesi di destinazione, il quale mette a rischio l’integrazione dei nuovi arrivati e quindi il successo delle politiche […]

#2

Aprite i porti, lo dico per voi – Marco Gallicani
Rilasciato il 01.08.18

[…] la politica delle “frontiere chiuse” crea un aumento dell’immigrazione illegale, che provoca un senso di insicurezza fra gli abitanti dei paesi di destinazione, il quale mette a rischio l’integrazione dei nuovi arrivati e quindi il successo delle politiche […]

#3

Aprite i porti: sull’adesione a Welcoming Europe – Marco Gallicani
Rilasciato il 01.08.18

[…] la politica delle “frontiere chiuse” crea un aumento dell’immigrazione illegale, che provoca un senso di insicurezza fra gli abitanti dei paesi di destinazione, il quale mette a rischio l’integrazione dei nuovi arrivati e quindi il successo delle politiche […]

#4

Sull’adesione a Welcoming Europe – Marco Gallicani
Rilasciato il 01.08.18

[…] la politica delle “frontiere chiuse” crea un aumento dell’immigrazione illegale, che provoca un senso di insicurezza fra gli abitanti dei paesi di destinazione, il quale mette a rischio l’integrazione dei nuovi arrivati e quindi il successo delle politiche […]

Fomenta la discussione

Tag permesse: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>