Non Si Sfugge Al Boia

Pubblicato da Dott. Barbie il 29.09.2012

On n’échappe pas de la machine à décapiter”, sussurro soavemente a Torvald, un perfetto prototipo di undicenne orobico-scandinavo che si è offerto di accompagnarmi in questa romantica latitanza. Fuori dalla finestra della nostra squallida pensione tre spacciatori si sono appena accoltellati, una stracciona ha pisciato in bocca ad un cadavere e un tossico sta succhiando alacremente la sua pipetta di crack, sprofondato in una pozza di vomito rossastra. Mi verso dell’aguardiente in un bicchiere e sorrido. Benvenuti a Cartagena, Colombia.

Sono state settimane convulse, le ultime. Tutto è iniziato nel corridoio di Warkhan, dove mi trovavo insieme a dei guerriglieri curdi per smerciare a un gruppo White Power/Aryan Nation dell’Oklahoma una grossa partita di KN-08 nordcoreani. In realtà, come ho avuto modo di scoprire, era una trappola dell’Interpol. Da diversi anni – come sicuramente saprà chi mi segue – agenti di mezzo mondo vogliono confrontarsi con me per chiarire la controversa configurazione giuridica del “bruciare interi villaggi in ex Jugoslavia, torturare la popolazione, far tagliare i testicoli ai maschi e metterli in bocca ai parenti”. Ecco: questa volta i gendarmi ci sono andati veramente vicino.

Non posso svelare come ho fatto a salvarmi – anche perché le relative circostanze sono oggetto di un’indagine condotta dalla Procura del Tribunale Penale Internazionale. Basti sapere che ho raggiunto una specie di accordo con il padre di Torvald, un poliziotto di alto profilo svedese: io avrei rapito il suo bambino; lui si sarebbe rigirato nel letto in preda agli incubi, macerandosi di fronte della prospettiva d’aver perso per sempre il frutto del suo amore. “Un compromesso ragionevole”, come ho lasciato scritto in un bigliettino.

Queste giornate colombiane scorrono placide e immobili. L’unico sussulto l’ho provato quando ho letto su un giornale locale del barbaro assassinio del solito Avvocato Coraggioso & Senza Macchia Per I Diritti Umani verificatosi in quel meraviglioso Paese post-golpista che è l’Honduras. Antonio Trejo Cabrera, 41 anni, è stato trapassato da cinque colpi di pistola mentre assisteva ad un matrimonio nella capitale Tegucigalpa. Da anni Cabrera – riporta la stampa – “denunciava la corruzione politica e difendeva i contadini ‘senza terra’ nell’annoso conflitto del Bajo Aguán contro alcuni degli uomini più ricchi e influenti dell’Honduras, uno su tutti Miguel Facussé, tra i maggiori produttori di palma africana del Centroamerica e massimo dirigente della Corporación Dinant, impresa che produce centinaia di prodotti associata a grandi aziende internazionali”. In più occasioni pubbliche l’avvocato aveva dichiarato che se fosse stato assassinato, il mandante sarebbe stato proprio Facussé. Finora il governo honduregno non ha fatto alcun arresto – e non potrebbe essere altrimenti.

Devo ammetterlo: nell’assimilare questa notizia ho spremuto una lacrima – e al contempo ho cercato di grattugiare via un lembo di pelle di Torvald. Non per la sorte dell’avvocato Cabrera, ovviamente: ma per i ricordi di gioventù sfioriti dall’incedere del tempo, per le mie impeccabili impiccagioni di dissidenti politici in Argentina, Guatemala, Bolivia, Paraguay, e così via. Tempi carichi di speranza, davvero, e momenti di pura, inalterata libertà calati in un orizzonte storico in cui l’autoritarismo era come l’universo, ossia in perenne espansione.

Chiudo gli occhi, ascolto “Desolation Row” e ritorno a quella splendida estate cilena del 1975 – l’estate torrida, fervente e dittatoriale in cui impiccai pubblicamente un’intera famiglia di bolscevichi. Preparai tutto alla perfezione, attenendomi al glorioso modello inglese. Visitai i prigionieri, diedi loro il buongiorno, li esaminai con occhio esperto, li pesai, ispezionai i loro colli, presi mentalmente nota della loro robustezza, guardai le lingue e, dopo aver fatto ripetere “trentatrè”, appuntai tutto su un libriccino. Prima di immobilizzare braccia e gambe con una larga cintura di cuoio, lasciai loro un opuscolo intitolato “Lo slogamento del collo è l’ideale a cui si deve aspirare”. Tremavano e si abbandonavano alle preghiere più disparate. Feci scendere sui loro occhi divorati dal terrore un cappuccio bianco e li accompagnai alla forca.

Legai il collo del professore socialista con una corda dallo spessore di due centimetri, fatta con cinque trèfoli di canapa indiana che, come ricorda il decano dei boia inglese Mr. Berry, “è l’ideale per impiccare gli uomini”. Per la moglie ne bastavano quattro; tre per i due bambini. La campana suonò. Il condannato si apprestò a salire diciannove gradini neri, appena catramati e ancora appiccicosi. Un gioviale militare gli batté sulla spalla: “Andrai su benissimo, tranquillo”.

L’uomo andò sul patibolo e io azionai la leva per aprire la botola. Quando la caduta del corpo si arrestò, si sentì un forte gorgoglio e subito dopo il sangue cominciò a scorrere a fiotti sul sottostante pavimento di pietra. Scesi e sollevai il cappuccio: il professore era stato quasi completamente decapitato, e la testa rimaneva attaccata al corpo solo grazie ad un piccolo lembo di pelle sul dietro del collo. Durante il mezzo minuto in cui il cuore continuò a battere, il sangue veniva gettato contro la piattaforma superiore attraverso lo squarcio aperto, lasciato dalla testa caduta indietro sulla spalla.

Poi venne il turno della consorte. Non appena cadde la botola, la corda si ruppe e il corpo piombò a terra. Il collo non si era ancora rotto, ma il colpo aveva fatto schizzare il sangue dalle orecchie dell’infida comunista. Mentre la corda veniva riaggiustata, la donna venne riportata su. Per un breve momento riacquistò conoscenza e chiese che le venisse levato il cappuccio per poter dire qualcosa. Negai recisamente questa richiesta. La seconda volta la corda tenne e la dissidente morì per strangolamento, in dodici minuti di orrida agonia. Osservai i due figli, sconvolti: ad entrambi aveva ceduto il piccolo sfintere. La piazza di Plaza de la Constitución gridava idrofoba, schiumava follia, era assetata di morte e rottura delle vertebre. Fu in quel preciso istante che capì che l’impiccagione non era un semplice lavoro meccanico, e nemmeno un volgare omicidio di Stato. No: l’impiccagione era arte allo stato puro.

Non sono certo il primo a dirlo o pensarlo. Nel 1928 Charles Duff – scrittore e giornalista inglese di origini irlandesi malauguratamente scomparso nel 1966 – scrisse il “Manuale del boia”, una delle mie stelle polari per quanto concerne la saggistica contemporanea. “Per noi – si legge in una delle prime pagine del magnum opus – l’impiccagione è un’attività umana, e conoscerla è indispensabile agli uomini di Stato e agli esponenti politici come lo è al chirurgo conoscere l’anatomia patologica, e all’artista la prospettiva”.

Il libro è sia uno spassionato elogio della forca che un trattato quasi accademico sull’intima civiltà che risiede nella pena di morte.

L’uomo non è diventato meno crudele col passare di quella cosa illusoria che si chiama tempo, anche se in quasi tutte le parti del mondo è diventato molto più ipocrita di quel che era. […] In verità la storia dell’uccidere è la storia stessa del mondo, e quindi non è affatto sorprendente scoprire che in nessun’altra cosa l’uomo ha più dimostrato la sua creatività che nell’inventare e perfezionare metodi e macchine per uccidere il suo simile.

Duff non nutre alcun dubbio sul fatto che la forca sia arte. Avendolo provato sulla mia pelle, non posso che prostrarmi ai piedi dell’autore britannico e menzionare questo brano:

L’impiccagione ha tutte le caratteristiche dell’arte: il legame con la tradizione, l’elaborazione di un modo immediato di esprimersi, l’equilibrio, l’armonia negli effetti, il ritmo, il tono; e l’efficacia. E non è rigonfiata da capricci modernisti, fantasie o eccentricità; non c’è bisogno di introdurvi tendenze surrealiste, dadaiste, esistenzialiste o chissà che: funziona benissimo anche senza.

Insomma, “un’esecuzione ben fatta è come un sonetto di Petrarca, una statua di Michelangelo, un quadro di Velàzquez”.

Ma chi è il boia, questo onesto funzionario pubblico insozzato da secoli di calunnie, avvolto dalla semi-clandestinità e riesumato in tempi moderni solo ed esclusivamente da illuminati totalitarismi? In primo luogo è un artista, naturalmente: “Un uomo che sappia, senza dolore e senza brutalità, liquidare un altro uomo non è forse un artista?” Bien sûr. “Il boia – prosegue Duff – è come il cane: l’amico dell’uomo”. Fortunatamente, avverte l’autore, non tutti possono improvvisarsi come tale.

Quello del boia è un lavoro durissimo, crudo, rischioso: “l’operazione è abbastanza delicata, esige un occhio attento, un cervello freddo e calcolatore in tempi brevi, e quel tocco maestro che si trova solo nel campo delle arti maggiori”.

È essenziale che un boia sia un persona di vasta cultura e molteplici interessi. Dovrebbe essere in grado di sentirsi a posto ad ogni livello sociale, e soprattutto non dovrebbe avere troppa coscienza di classe. Dovrebbe poter essere la guida, il filosofo e l’amico di chiunque dovesse impiccare per nostro conto. […] Il carnefice non è forse un concettualista?

E non solo un “concettualista”; anche un “internazionalista” (ed io ne sono la riprova più lampante), nel senso che

sarebbe ugualmente disposto a impiccare uno straniero o un inglese, uno scandinavo o un ebreo, un membro della Chiesa d’Inghilterra o di quella di Roma, o un fanatico puritano. Un motivo di questo distacco e imparzialità sta nel fatto che il boia riceve sempre lo stesso onorario professionale […] per spezzare qualunque tipo di collo. Egli è infatti un onesto lavoratore nel più rigoroso senso marx-engels-leninista.

A volte, però, questa classificazione risulta particolarmente ostica perché il boia mostra “qualche tara borghese e perfino aristocratica”. Per dirimere la questione, Duff scrive: “Sarà meglio, una volta per tutte, semplificarci le cose, inserendolo nella categoria degli artisti”. Amen.

Purtroppo, quella dell’impiccagione – se si eccettua la gloriosa fine di Saddam Hussein – è un’arte in totale declino. Già nel 1928 (e nelle edizioni via via aggiornate fino al 1961) lo scrittore si chiedeva se il declino dell’impiccagione fosse dovuto alla decadenza o al progresso. “È difficile rispondere a questa domanda, ma poiché esistono intorno a noi tanti segni di decadenza, e così pochi di progresso, è più sensato attribuire questo declino alla decadenza”.

Tra i tanti “segni di decadenza” che minacciano la forca vanno sicuramente ricomprese le famigerate “prediche umanitarie” (ora trasformate in “attivismo per i diritti umani”) che, “come quelle religiose, tendono a ottenebrare la ragione delle masse”. E, oltre alle “prediche umanitarie”, si staglia sulla nostra amata istituzione una ben più perniciosa minaccia: quella della “clemenza”.

La clemenza imposta dalla piazza è altrettanto brutta dell’esecuzione imposta dalla piazza. […] La clemenza, e specialmente la clemenza di massa, è una cosa che noi tutti dobbiamo riprovare ed eliminare. Se lo spirito di clemenza […] continua a crescere allo stesso ritmo degli ultimi anni, non si sa dove si andrà a finire. Potremmo persino arrivare all’abolizione della guerra. Che disastro sarebbe! […] Perciò, via tutte le stupidaggini sentimentali, e avanti con l’impiccagione.

Purtroppo, il sentimentalismo d’accatto sembra aver prevalso. Ciò nonostante viviamo in un mondo cupo e triste, peraltro non molto diverso da quello di Duff, a sua volta “fatto di guerre, rivoluzioni, agitazione e incertezza politica”. E qual è l’unica cosa cui possiamo aggrapparci, a parte il traffico di armi e il contrabbando internazionale di uranio impoverito?

C’è almeno un ammirevole tradizione nella storia dell’uomo, che sempre riemerge dai cataclismi più gravi: il patibolo o un suo equivalente. Capi di rivoluzioni, dittatori, uomini di Stato o politologi, di qualunque fede o colore, concordano tutti per lo meno su un punto, cioè che, se la società ha bisogno di essere riformata, ripulita, rinnovata e migliorata, le riforme, le ripuliture, i rinnovamenti e i miglioramenti non si potrebbero comunque ottenere senza l’aiuto della più antica istituzione, che è la pena di morte.

Si è fatto tardi, ormai. Risveglio il tenero Torvald con un calcione, scaglio la bottiglia di aguardiente in strada e stringo al petto il “Manuale del boia”. Osservo con devozione la mini-forca che avevo preparato nella nefesta eventualità che il padre e i suoi colleghi mi avessero stanato. Un’opera deliziosa, non c’è che dire. Eppure tutto tace, l’Interpol è evanescente, la porta è serrata, il Cile è sommerso dalle memorie degli altri innumerevoli massacri e le puttane continuano a salire e scendere le scale facendo riecheggiare le loro risate sguaiate.

Non farti ingannare, Torvald, da chi considera il libro di Duff una raffinatissima opera satirica. Rifiuta con decisione i diktat dei liberali, che ti vorrebbero prodigo e intento a curare e far prosperare l’Albero della Libertà. Non farlo: prendi la motosega e abbattilo senza pietà. L’unico Albero che merita le tue attenzioni, mio dolce orobico, è quello degli Impiccati.

L’esperienza del nostro tempo, del resto, ce lo insegna: il patibolo è l’unico edificio politico che non può essere spazzato via nemmeno dalla più illuminata rivoluzione.

+  +  +

(Esperto in colpi di stato, fanatico dei rovesciamenti di regimi democratici e maestro del traffico d’armi in cambio di minorenni, il dott. Barbie è il consulente politico-militare de La Privata Repubblica.)

(Illustrazioni da Deviantart: 1234)

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Drop the Hate / Commenti (5)

#1

Fede
Rilasciato il 30.09.12

Posso avere un autografo del Dott. Barbie scritto col sangue di Torvald? XD
Grande pezzo cmq… sono i più difficili da scrivere.

#2

L.
Rilasciato il 02.10.12

Complimenti.

#3

Destrosio Al Magnesio
Rilasciato il 03.10.12

Ma il Dott. Barbie andava in vacanza a Colonia Dignidad?
http://robbabbona.blogspot.it/2012/10/valparaiso.html

#4

Armand Milieu
Rilasciato il 10.01.14

Una delle cose migliori che ho letto di recente. I miei rispetti.

#5

klesk
Rilasciato il 01.08.16

Davvero terribile il resoconto dell’impiccagione di un’intera famiglia cilena! Purtroppo per l’uomo, se era stato condannato e doveva affrontare la forca bisognava rassegnarsi, ma per la moglie e i bambini! Per loro nessuna condanna, e meno che mai a morte! Prima di prendere la decisione di far morire una persona bisogna pensarci bene!

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