Anatomia Di Una Giornata Andata A Puttane

Pubblicato da Blicero il 14.01.2013

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Anatomia Di Una Giornata Andata A Puttane

Alla fine del maggio 2011, il 15-M spagnolo aveva indetto una giornata di manifestazione globale per il seguente 15 ottobre. In Italia, tra improbabili scioperi della fame e grotteschi Popoli Qualcosa™, il movimento degli indignados non ha mai attecchito veramente. Per questo motivo, la pianificazione della manifestazione è sprofondata in una «complessa rete di incomprensioni, tensioni e lotte intestine […], che hanno compromesso i tentativi di costruire strutture organizzative formali e informali».

Il 13 settembre venne formato il “Coordinamento 15 ottobre”, un comitato che raccoglieva gruppi politici, movimenti sociali, partiti radicali, ecc. Tuttavia, scrivono Della Porta e Zamponi, «era troppo tardi per iniziare una vera discussione politica sugli obiettivi e i contenuti della mobilitazione». Ed infatti il Coordinamento si è limitato a curare la sfera logistica della manifestazione:

Il Coordinamento di fatto rimase invisibile all’opinione pubblica, un punto di riferimento non riconosciuto dai potenziali attivisti, incapace di costruire un’identità collettiva per la comprensione condivisa della protesta. La maggior parte dei manifestanti non era nemmeno a conoscenza della sua esistenza.

Di conseguenza, il dibattito interno fu incentrato esclusivamente sull’itinerario della manifestazione, come ricorda un manifestante:

Nel corso degli incontri, ognuno cercava di provare di essere più a sinistra dell’altro. Siccome non c’era un vero dibattito politico, l’area di riferimento era stabilita in base al percorso del corteo. Se volevi andare verso il centro eri di sinistra, se volevi andare a San Giovanni eri di destra.

Come ampiamente prevedibile, l’assenza di una piattaforma politica condivisa ha lasciato una sconfinata prateria alle azioni dei gruppi più violenti. I primi incidenti (macchine bruciate, assalti a bancomat e supermercati) causati dagli “incappucciati” si sono verificati in via Cavour tra le 2 e mezza e le tre di pomeriggio. Gli attacchi sono poi proseguiti tra le 3 e le 4 nei dintorni del Colosseo e in via Labicana, hanno raggiunto le vie Manzoni e Merulana e sono sfociati in guerriglia in Piazza San Giovanni, impedendo lo svolgimento del comizio finale e l’acampada che qualche gruppo aveva intenzione di iniziare.

In un certo senso, scriveva il collettivo romano Militant all’indomani degli scontri,

La piazza ha esondato e scavalcato ogni struttura, gruppo, sindacato o partito; ha ignorato accordi presi in riunioni o assemblee di cui forse neppure era a conoscenza e ha praticato la propria rabbia spontaneamente e nell’unica forma concreta in cui gli era possibile.

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Il fallimento organizzativo della manifestazione è stato assolutamente speculare a quello della gestione dell’ordine pubblico, nella quale sono state impiegate (in maniera molto più blanda) alcune delle catastrofiche strategie viste al G8 di Genova.

Faccio un passo indietro. Secondo i due ricercatori, dagli anni ’70 in poi

c’è stata una progressiva accettazione del diritto di protesta non solo dall’opinione pubblica, ma anche da parte delle forze dell’ordine. […] Seppur in modo selettivo, il diritto a manifestare tendeva ad essere più protetto. Quella che sembrava una tendenza, tuttavia, è stata ribaltata negli anni 2000. […] Le cariche di polizia sono diventate più frequenti e brutali, soprattutto grazie all’uso di armi “meno letali” spesso sperimentate su ultras e criminali comuni.

La creazione di zone rosse (sempre più estese) ed il conseguente isolamento dei luoghi simbolici divennero uno standard transnazionale. A titolo esemplificativo, le recinzioni sono passate dai 2.5 km di lunghezza a Quebec City (nel 2001) ai 12.5 km di Heiligendamm (Germania) nel 2007.

Il 15 ottobre 2011 si è deciso di proteggere a tutti i costi i palazzi del potere, lasciando per strada una manciata di unità che dovevano gestire una folla di 300mila persone. La scelta è stata criticata anche da un poliziotto sentito dai due ricercatori, che ha lamentato uno «sbilanciamento nella distribuzione delle forze»: «se ci sono un gruppo di 50 uomini e uno di 10, un manifestante attaccherà […] il gruppo di 10 che è più vulnerabile, non crede?». Con un simile dispiegamento di forze era praticamente impossibile «proteggere i manifestanti» e «isolare le frange violente».

Un altro elemento cruciale nelle strategia di de-escalation è la presenza di negoziati tra le parti. Argomentano Della Porta e Zamponi:

Formalmente, questi negoziati possono consistere in accordi scritti su percorsi e comportamenti. Informalmente ci si può accordare anche su violazioni minori, come forma di concessione simbolica ai manifestanti in cambio di danni limitati. Anche i contatti fisici tra manifestanti e polizia possono essere (informalmente) regolati, in modo da tenere alta la tensione emotiva e la notiziabilità, ma anche per limitare i danni in entrambi i casi.

Nel modello negoziato di gestione dell’ordine pubblico, inoltre, la comunicazione durante l’evento è assolutamente fondamentale per sventare escalation e degenerazioni varie. Per il 15 ottobre c’erano stati dei contatti pregressi tra Questura e organizzatori, ma durante la manifestazione «non c’è stata la minima forma di contatto» tra polizia e organizzatori, come ricostruisce un manifestante:

Basti pensare che, alla fine, molte persone nel gruppo di contatto sono finite in mezzo alle cariche e agli idranti perché si trovavano a San Giovanni senza poter comunicare, discutere e cose del genere, anche perché non c’era nessun ufficiale responsabile di polizia. Non c’era nessuno con cui poter comunicare per strada, e questo non è certo il protocollo abituale.

Oltre a non parlare con i manifestanti, i (pochi) poliziotti per strada non riuscivano nemmeno a coordinarsi tra loro. Questo il racconto di un agente raccolto da Repubblica:

Avevano attaccato il servizio alle 12 a largo Corrado Ricci. «Ci hanno detto di rimanere lì per presidiare alcune sedi istituzionali. Intorno alle 18, a caos già scoppiato, dopo minuti, lunghissimi, in cui sentivamo i nostri colleghi in difficoltà chiedere aiuto via radio, ci hanno finalmente fatti spostare in via Merulana per un primo sbarramento. Da lì le cose sono andate sempre peggio. La radio gracchiava, da piazza San Giovanni i nostri colleghi continuavano a chiedere aiuto, erano in 200 contro 2500 black-block. […]. Noi però non potevamo raggiungerli. Stavamo lì, a farci prendere a sassate senza reagire e non potevamo andare in soccorso dei nostri colleghi che, da ore, venivano massacrati. È stato terribile. Solo alla fine ci hanno dato il via libera e siamo andati a liberare la piazza. Ma ormai era tardi, era già successo di tutto». […] «Eravamo terrorizzati, anche perché per radio parlavano i dirigenti, per cui non riuscivamo a capire quale gruppo fosse sotto attacco. Ho scoperto una violenza gratuita e feroce. Mai mi è capitato di vedere le forze dell’ordine così remissive, ma non è servito a nulla.

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Più che «remissive», quel giorno le forze dell’ordine sono apparse completamente disorientate e stremate – anche perché si tratta di una polizia sempre più vecchia, con un’età media di 48 anni. Un funzionario del Reparto Mobile ha detto all’Ansa che «un problema che pochi considerano è quello dell’invecchiamento degli agenti. Nel mio reparto ieri il più giovane aveva 47 anni ed è durissima fare lunghe corse per cinque ore con addosso casco, scudo e maschera antigas, mentre si fronteggiano diciottenni che hanno ben altra prestanza fisica. Non dimentichiamo che sabato [15 ottobre, nda] un carabiniere è stato colto da infarto mentre correva». Sulla strada, insomma,

devono starci i giovani, che hanno il fisico ed anche l’entusiasmo. Io capisco che un padre di famiglia, con figli a casa, ci pensi non due, ma dieci volte, prima di lanciarsi con impeto contro chi ti scaglia addosso mazzette di cinque chili. E non dimentichiamo che percepiamo sette euro lorde per rischiare la vita in questo servizio.

Sul tutto è anche aleggiato il trauma perenne di Genova, una ferita in suppurazione da ormai più di un decennio. In un forum online, un poliziotto (nickname: “soldato.blu”) ha scritto:

Dopo Genova c’è gente che si è ipotecata casa per pagare i danni ed io, il mio esiguo stipendio, me lo voglio mangiare e non certo regalare a qualche avvocato o a qualche babbione con la cresta da gallo in testa. Sindrome di Genova si chiama? Sì, e sindrome sia. Fin quando questi politici continueranno ad ingozzarsi senza pensare ad altre modalità di gestione dell’ordine pubblico, io continuerò a guardarmi le chiappe: sfasciano? Si riaggiusterà. Bruciano? Idem.

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«Chi era la gente che si è fatta coinvolgere» in Piazza San Giovanni, «quella che non è scappata, quella che giubilava al termine della controcarica»? È difficile dare una risposta univoca. Nel caos generalizzato, una delle poche certezze della giornata è che i casseurs non hanno sbagliato un colpo: le tecniche di guerriglia urbana impiegate sono state davvero raffinatissime.

Sul punto vale la pena riportare un ampio stralcio dell’intervista (aspramente contestata dai movimenti) fatta da Carlo Bonini ad un c.d. «black bloc»:

Quale organizzazione avevate?

Eravamo divisi in due “falangi”. I primi 500 si sono armati a inizio manifestazione e avevano il compito di devastare via Cavour. Altri 300 li proteggevano alle spalle, per evitare che il corteo potesse isolarli. L’ordine che avevano i 300 era di non tirare fuori né caschi, né maschere antigas, né biglie, né molotov, né mazzette fino a quando il corteo non avesse girato largo Corrado Ricci. Non volevamo scoprire con gli sbirri i nostri veri numeri. E volevamo convincerli che ci saremmo accontentati di sfasciare via Cavour. Ci sono cascati. Hanno fatto quello che prevedevamo. Ci hanno lasciato sfilare in via Labicana e quando ci hanno attaccato lì, anche la seconda falange dei 300 ha cominciato a combattere. E così hanno scoperto quanti eravamo davvero. A quel punto, avevamo vinto la battaglia. […]

Sarebbe andata diversamente se avessero caricato subito il corteo in largo Corrado Ricci e vi avessero isolati.

Non lo hanno fatto perché, come ci hanno insegnato a fare i compagni greci, sono stati confusi dal modo in cui funzionano le nostre “falangi”.

Come funzionano?

Siamo divisi in batterie da 12, 15. E ogni batteria è divisa in tre gruppi di specialisti. C’è chi arma, recuperando in strada sassi, bastoni, spranghe, fioriere. C’è chi lancia o usa le armi che quel gruppo ha recuperato. E infine ci sono gli specialisti delle bombe carta. Organizzati in questo modo, siamo in grado di assicurare un volume di fuoco continuo. E soprattutto siamo molto snelli. Ci muoviamo con grande rapidità e sembriamo meno di quanti in realtà siamo.

È la stessa organizzazione con cui funzionano i reparti celere.

Esatto. Peccato che se lo siano dimenticato. Dal G8 di Genova in poi si muovono sempre più lentamente. Quei loro blindati sono bersagli straordinari. Soprattutto quando devono arretrare dopo una carica di alleggerimento. Prenderli ai fianchi è uno scherzo. Squarci due ruote, infili un fumogeno o una bomba carta vicino al serbatoio ed è fatta.

Per quanto riguarda i manifestanti pacifici, la loro frammentazione e la mancanza di un portavoce ufficiale hanno favorito l’escalation sia della polizia che dei gruppi violenti – quest’ultimi ampiamente sottovalutati, come spiega un manifestante a Della Porta e Zamponi: «gli organizzatori […] non hanno preso sul serio il fatto che sei-settecento persone sarebbero venute per spaccare tutto.  […] Sapevamo che c’era un rischio, ma speravamo che sarebbero rimasti ai margini della protesta».

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È successo l’esatto contrario. Ancora una volta, una risposta del «black bloc» a Repubblica è illuminante:

Noi non ci siamo nascosti. Il Movimento finge di non conoscerci. Ma sa benissimo chi siamo. E sapeva quello che intendevamo fare. Come lo sapevano gli sbirri. Lo abbiamo annunciato pubblicamente cosa sarebbe stato il nostro 15 ottobre. Ora i “capetti” del Movimento fanno le anime belle. Ma è una favola. Mettiamola così: forse ora saranno costretti finalmente a dire da che parte stanno. Ripeto: tutti sapevano cosa volevamo fare. E sapevano che lo sappiamo fare.

In definitiva, il 15 ottobre è stato un disastro generalizzato su tutti i fronti. Ed è stato un fallimento – voluto, non voluto? – anche e soprattutto a livello politico. Il Governo Berlusconi, infatti, stava perdendo pezzi e sbandava sull’orlo del collasso: era inevitabile che l’atmosfera da Götterdämmerung si riverberasse sulla catena di comando delle forze dell’ordine.

Se dal punto di vista dell’ordine pubblico, dunque, lo Stato è uscito dalla battaglia di Roma con le ossa rotte, da quello giudiziario la storia è molto diversa.

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Drop the Hate / Commenti (4)

#1

El_Pinta
Rilasciato il 14.01.13

Ottimo post in margine a cui ti chiedo un’opinione personale.
Pensi davvero che l’intervista di Bonini sia attendibile?

#2

Girfalco
Rilasciato il 14.01.13

Complimenti, grazie per l’analisi, davvero ben fatta.
In merito, mi sembra un controsenso difendere una maggioranza (visto che in teoria dovrebbe autodifendersi in quanto tale).

#3

Gianni Gallina
Rilasciato il 15.01.13

Davvero un ottimo articolol
cosa ne pensate del servizio delle Iene su Barbareschi?

https://www.facebook.com/photo.php?v=10151417427555530

grazie vi ascolto sempre
complimenti per la trasmissione

#4

McLaud
Rilasciato il 28.01.13

Come al solito, un articolo ben scritto e ben documentato.

Aggiungo solo che se è vero che vi è parte della magistratura che condivide il genere di interpretazione ed applicazione del diritto penale che hai ricostruito, c’è anche una quantità di giudici che si sottraggono alla meccanica trasmissione dei meccanismi di tutela del potere o anche a quelle limitative della libertà d’espressione (e basta pensare alla sentenza della Corte costituzionale sul reato di associazione antinazionale o alla sostanziale disapplicazione che molti altri delitti “contro la personalità dello stato” conoscono nella prassi).

Per altro verso, non mancano giudici che si prestano a manovre di carattere politico e l’esito delle vicende processuali seguenti al G8 di Genova è in questo senso quanto meno emblematico, con De Gennaro assolto da ogni accusa, mentre diversi alti funzionari vengono condannati – alcuni ingiustamente – a mo’ di capri espiatori (senza che vengano inoltre concesse le attenuanti generiche, in genere automaticamente riconosciute a chiunque: da mafiosi a terroristi, da politici a delinquenti comuni…).

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