Canestri Nordcoreani

Pubblicato da Blicero il 5.09.2012

III. La Speranza di Michael Ri

Il 19 dicembre del 2011 il ghiaccio che avvolge il lago Chon vicino al Monte Paektu si spacca e produce un rumore così forte da far tremare Inferno e Paradiso. L’area circostante è sferzata da tempeste di neve e forti venti che cessano all’alba del giorno dopo. Un messaggio appare improvvisamente sulle rocce e risplende per tre giorni: “Monte Paektu, la montagna sacra della rivoluzione.” Firmato: Kim Jong Il, separato prematuramente dal suo popolo il 17 dicembre. Secondo l’agenzia di stampa di Stato Korean Central News Agency (KCNA), in tutto il Paese la natura partecipa al lutto dei nordcoreani.

I funerali del Caro Leader si svolgono il 28 dicembre. Le strade di Pyongyang sono innevate e i pianti e i lamenti dei lavoratori del Partito formano l’unica colonna sonora della giornata. Il feretro dell’ex Presidente – appoggiato su cuscino di fiori bianchi e avvolto da una bandiera rossa – è issato sul tetto della Lincoln ’76 seguita a passo d’uomo da una flotta di Mercedes Benz. L’erede ventottenne (o ventinovenne) Kim Jong Un poggia una mano sul cofano dell’automobile presidenziale e tiene la testa bassa per tutto il percorso. Ai lati del corteo funebre motorizzato è riunita una grande folla. Tra le file composte e immobili svetta un soldato di 2,35 metri, immortalato dai fotografi dell’Associated Press. Nonostante le rassicurazioni dell’agenzia americana sull’autenticità delle foto, la stampa mondiale grida subita al fotomontaggio. Ma questa volta si sbaglia di grosso: quel soldato è Myung Hun Ri, ex pilastro della nazionale nordcoreana che molti anni prima stava per coronare il sogno di giocare nell’NBA – se solo la politica e il Dipartimento di Stato americano non si fossero messi di traverso.

Nato (presumibilmente) nel 1967, negli anni ‘90 attorno a Ri si era costruita la leggenda di un gigante con ottimi fondamentali, un buon gancio e la voglia di segnare canestri negli States. Gli scout dell’NBA, del resto, non vedevano l’ora di mettere la mani sul misterioso centro asiatico. Nel basket professionistico americano si era infatti diffusa la mania di impiegare giocatori altissimi (tra cui il sudanese Manute Bol e il romeno George Muresan), ma pressoché sprovvisti di qualità tecniche. Il primo uomo dell’NBA ad incontrare Ri fu Tony Ronzone, nel 1998. Invitato in Corea del Nord in qualità di rappresentate della Fiba, Ronzone era anche uno scout dei Dallas Mavericks. Quel viaggio era la perfetta occasione per vedere Ri sul parquet. Alla fine, le voci si rivelano esatte: il nordcoreano è talmente alto che riesce a toccare il ferro senza saltare. Kim Jong Il, che aveva sempre tenuto la stella della nazionale sotto stretta sorveglianza, asseconda il desiderio e benedice la sua partenza.

Ri vola in Canada per allenarsi con Jack Donahue (allenatore della nazionale canadese) e anglicizza il suo nome in Michael. Un omaggio al suo – e del Caro Leader – idolo, ovviamente: Micheal Jordan. “Alla sua età [29 anni nel 1998, nda], Ri non sarebbe mai diventato un grandissimo giocatore NBA – dichiarerà tempo dopo Donahue al sito specializzato Hoopsanalyst – Ma credo che sarebbe stato efficace per 10 o 15 minuti a partita”. Anche Tony Ronzone è d’accordo: “Non aveva le capacità di Yao Ming, ma era alto 2 metri e 35 ed era migliorato in poco tempo. Sarebbe potuto essere interessante”.

Almeno una dozzina di squadre manifesta interesse per Ri. C’è però un ostacolo insormontabile: il Dipartimento di Stato. Secondo quest’ultimo, ingaggiare Ri avrebbe costituito una violazione del Trading With The Enemy Act, la legge che vieta alle società americane di fare affari con i cosiddetti stati canaglia – tra cui naturalmente figura la Corea del Nord. “Per l’NBA e la Camera di Commercio non c’erano problemi”, dice il cestista alla CNN. “Il Dipartimento di Stato, invece, mi ha fatto aspettare per 6 mesi e poi ha detto no. Mi hanno usato per fini politici. E così ho rinunciato”.

L’avvocato di Cleveland Michael Coyne, che aveva assistito legalmente il gigante nordcoreano, confida a Mark Ziegler dello Union Tribune: “Credo che i nordcoreani volessero usare la macchina del marketing NBA per dimostrare di essere persone normali. E avrebbe funzionato, perché Michael [Ri, nda] era perfetto per fare ciò. Aveva un ottimo atteggiamento, era un grande lavoratore ed una persona molto carismatica”. E per l’ex agente Bob Carlin, gli Stati Uniti non hanno gestito l’affaire “così sensatamente come avrebbero dovuto fare”. A Ri non rimane altro che tornare a Pyongyang. La sua disavventura lo fa diventare un eroe nazionale – e, soprattutto, un formidabile strumento di propaganda.

Nel 2000 il Dipartimento di Stato torna sui suoi passi. Ma è troppo tardi. Ri (o Kim Jong Il?), offeso dal precedente rifiuto, non ha intenzione di tornare. “Per me è un onore giocare sotto l’egida del Generale”, dice a dei giornalisti sudcoreani. “Perché avrei bisogno di andare da qualche altra parte?”

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Drop the Hate / Commenti (3)

#1

Fede
Rilasciato il 05.09.12

Il basket come chiave di lettura dei rapporti diplomatici fra USA e Corea del Nord negli ultimi 25 anni. Davvero un’idea ottima.

#2

Melissa P2
Rilasciato il 06.09.12

Il commento sopra sa di presa per culo.
Hans Blix <3

#3

Fede
Rilasciato il 06.09.12

No, ero serio. L’articolo mi è piaciuto molto.
Come quasi tutti gli articoli presenti su questo sito.

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