Il Dottore E L’Operaio
Luiz Inácio da Silva, detto Lula, dichiara all’anagrafe 172 cm, anche se l’impressione, a giudicare da certe foto, è che sia anche qualche centimetro più basso; non che la cosa stupisca, in un figlio di proletari pernambucani cresciuto a poco cibo e molto lavoro. Il Brasile di inizio anni Ottanta è d’altronde un paese iniquo e dittatoriale, e nei paesi iniqui le cose funzionano così: i poveri sono piccoli e brutti, hanno pochi denti e a volte anche poche dita (ne manca uno anche a Lula; aveva diciannove anni quando lo ha lasciato sotto una pressa nell’operosa città di San Paolo).
Nella città di San Paolo, anche all’inizio degli anni Ottanta, accanto ai poveri come Lula vivono i figli di una borghesia molto benestante, che manda i propri figli all’università e che offre loro ricche biblioteche. In quei libri e nelle strade di San Paolo certi di questi ragazzi alti e bianchi scoprono che non è giusto che le cose vadano così, e iniziano a farsi domande e a farle pubblicamente. È anche grazie a loro che le cose cominciano a cambiare, e cambiano sempre più velocemente.
Uno di questi ragazzi di buona famiglia, anche se non è nato a San Paolo ma in Amazzonia, si chiama Socrates: allora gioca nel Corinthians, il Timão (lo squadrone), la squadra del popolo, quella per cui tifano tutti quelli che non hanno buoni motivi per sostenerne un’altra. Socrates è un centrocampista lento e preciso, che in campo ispira gli altri giocatori con i passaggi e con le parole. Un giorno decide di guidare i compagni anche nello spogliatoio: lui, Walter Casagrande e Wladimir inaugurano la “Democrazia Corinthiana”, che prevede che i giocatori abbiano diritto d’opinione sulla formazione, sul club e sulle proprie coscienze. Socrates è alto un metro e novantadue, mentre Casagrande, un italiano di San Paolo, dichiarava centonovantuno centimetri. Wladimir invece era piccolo (più piccolo di Lula, forse) e scuro scuro, ma lui era già un idolo della torcida.
Nel 1982 il Brasile si presenta ai mondiali con una squadra bellissima, che vanta una tecnica e una pulizia di gioco forse mai viste prima, neanche quando c’erano Pelè, Jairzinho e gli altri eroi delle tre Coppe Rimet. Ma quella squadra è particolare già a vederla in foto, perché sono tutti bianchi e sembrano tutti bravi ragazzi di buona famiglia: solo Serginho stona, nero come l’antracite, ma Serginho è estraneo a quella squadra e al suo gioco (è lì solo perché si è rotto Careca), e questa cosa il Brasile la pagherà cara. L’anima della Selecão si chiama Socrates, con i suoi passaggi radenti, la sua calma olimpica, la fiducia che irradia dalla sua figura altissima e che si trasmette a tutta la squadra (“…dà un apporto più morale che agonistico”: Gianni Brera, 3 luglio 1982). Quel Brasile bianco e pulito vince sempre, e vince bene, finché non incontra un’Italia sporca e affamata, manco fossero gli azzurri quelli del Terzo Mondo. Non basta un gol preciso e furbo di Socrates a fermare gli azzurri, che segnano tre volte ed eliminano i verde-oro. Ma la fame di quell’Italia si ferma in campo e finisce con la conquista del Mondiale, mentre i ragazzi brasiliani hanno ancora tanto da morder via.
Il 15 ottobre 1982 in Brasile si vota, ma i brasiliani sono disabituati alle elezioni e l’interesse in giro non sembra elevatissimo: ci sono cose più importanti, e la cosa più importante di tutte è il calcio. Allora, alla vigilia di quelle elezioni, il Timão scende in campo con una scritta sulle maglie, sopra i numeri, e la scritta dice “Il quindici andate a votare”. La proposta l’ha lanciata il capitano, che è Socrates, e gli altri bianconeri hanno detto di sì.
A quelle elezioni si vota anche per la carica di governatore dello Stato di San Paolo; tra gli altri candidati c’è anche un ex operaio senza un dito. Si chiama Lula, è arrivato dal Pernambuco quand’era ancora un ragazzino e tifa Corinthians, perché che altro si può tifare? Ma Lula perde; prende tanti voti, più di quanti ne attendeva, però perde. Ed è così che quell’ex operaio e sindacalista diventa noto ai brasiliani: come un perdente indomito e incorreggibile.
Invece il Corinthians vince. Vince il campionato dello Stato di San Paolo nel 1982 – sulle maglie hanno scritto “Democrazia” – e vince anche l’anno seguente. Poi la squadra si sfalda: Socrates se ne va in Italia, a Firenze, dove nessuno ascolta i suoi discorsi politici e dove il calcio già iperprofessionistico trova che un atleta non possa bere e fumare quanto Socrates beve e fuma. Casagrande invece transita dal Porto al Torino (in mezzo ci sono quattro anni ad Ascoli Piceno, anni silenziosi e riempiti solo di gol), mentre Wladimir inizia a girare per tutto il Brasile e incontra il Corinthians da avversario. Proprio lui che nel Timão ha giocato più partite di tutti.
Quando Socrates ritorna in Brasile, dopo una sola stagione deludentissima, Lula sta per diventare deputato, con tanti di quei voti come mai nessuno prima. Di lì a poco inizia a perdere elezioni, una dopo l’altra, finché non pare quasi automatico che le cose debbano andare per forza così. Intanto Socrates smette di giocare a pallone e si allontana da quel mondo, perché il calcio brasiliano sta diventando come quello europeo e non gli piace più. Non gli piacciono gli ex campioni che vendono il proprio nome e la propria gloria in cambio di ricompense meschine, come fanno in tanti anche in Brasile: lui se ne sta discosto, beve e fuma, e irride i giornalisti che vengono a intervistarlo. Ma li irride con la calma e la classe che aveva anche in campo, e quelli non si sentono umiliati.
Un giorno invece Lula vince le elezioni: un operaio senza un dito diventa presidente del Brasile, ed è una cosa nuova e inaspettata per tutti. Un po’ come la “Democrazia Corinthiana”.
Una volta che lo intervistano per un libro, Socrates dichiara:
Io sono un modello negativo. Fumo da quando avevo 13 anni. L’unico quesito filosofico che mi pongo è ‘perché mai dovrei cercare di fingermi diverso da come sono?’. Io fumo: morirò di cancro al polmone o di enfisema”.
Ma è una bugia: non è il fumo ad ammazzarlo, bensì l’alcool. Socrates se ne va a 57 anni. Il calcio che aveva conosciuto e che aveva segnato con la sua placida classe non esiste più: tutto è cambiato. Però è cambiato anche il Brasile, per merito di un piccolo pernambucano tifoso del Corinthians e della sua ostinazione a provarci e riprovarci. E forse una parte di merito ce l’ha anche il Dottor Socrates, che ha abbracciato quel piccoletto quando era solo un sindacalista e non gli ha mai fatto pesare i venti centimetri di differenza.
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Drop the Hate / Commenti (5)
#2
tamas
In effetti è esattamente ciò che ricordavo anche io dagli anni Ottanta e dalle figurine, ma dopo una certa indagine iconografica mi pare di poter concludere che – pur essendo indubbiamente due mulatti – né Junior né Cerezo erano poi così scuri come me li rammentavo. Insomma, per essere un Brasile quello era incredibilmente “bianco”.
#3
#4
Christiano
Il commento audio «Doutor na bola e craque na pessoa», mentre il pubblico a pugno chiuso «È Socrates!!!»
E sono sicuro di si, puoi levare anche “forse” e “parte di”, perché il “merito ce l’ha anche il Dottor Socrates”.
C_
#5
#1
e.
molto bello l’articolo. e non sapevo, prima di oggi di Casagrande, che mi ricordo benissimo.
Ma in quel brasile bianco c’erano Junior e Cerezo che non erano bianchi e non erano comprimari. O ricordo male?