Lo Stato Che Era Giovedì

Pubblicato da Blicero il 24.02.2011

L’Antefatto Vagamente Ellroyano A Questa Storia (Che Sembre Direttamente Uscito Dal Primo Capitolo De “Il Sangue È Randagio”)

Raymond Davis, un corpulento 36enne americano dai capelli già spruzzati di bianco, è all’interno della sua Honda Civic in Pakistan, fermo ad un semaforo. È il 27 gennaio a Lahore, la seconda città pakistana per numero di abitanti. La strada in cui si trova Davis, Mozang Chowk, è trafficata. Molto trafficata. E dista circa sette chilometri dall’ambasciata americana. Una moto con due passeggeri a bordo (di cui uno con una pistola) gli va incontro e si ferma davanti alla macchina. Davis tira subito fuori la sua Glock calibro 9 e apre il fuoco. Cinque colpi passano attraverso il parabrezza e vanno a stendere Faheem Shamshad, un 26enne con precedenti di microcriminalità, che stramazza al suolo. Morto.

Il guidatore della moto, il 22enne Faizan Haider, comincia a correre. Davis esce dalla macchina, prende la mira ed esplode altri cinque colpi: due finiscono sulla schiena, gli altri tre sul petto. L’americano torna in macchina, chiama dei rinforzi con una radio militare e comincia a fare foto ai cadaveri. “Era molto sicuro e rilassato. Mi chiedevo come potesse essere così uno che aveva appena fatto fuori due persone”, dirà in seguito un testimone oculare.

Intanto dall’ambasciata parte una Toyota Land Cruiser Prado con i vetri oscurati che spregiudicatamente riesce a farsi strada fino al luogo della sparatoria. Ma la via è ostruita dal traffico; e così i conducenti decidono di invadere a tutta velocità la corsia opposta, travolgendo a morte un venditore di prodotti cosmetici, Ibad ur Rehman, in sella alla sua moto. Quando la Toyota giunge a Mozang, Davis è già sparito. Nel frenetico viaggio di ritorno dal veicolo vengono sbalzati fuori cento proiettili, coltelli, guanti e, curiosamente, un pezzo di stoffa con la bandiera americana.

Davis viene arrestato dalla polizia nell’affollato bazaar di Old Anarkali. “Sono un consulente dell’ambasciata, chiamate l’ambasciata”, dice l’americano in commissariato. E racconta la sua versione, immediatamente avvallata dal governo americano: i due volevano rapinarlo, quindi ha aperto il fuoco per proteggersi. Legittima difesa. Ma gli investigatori pakistani rilevano molte incongruenze & stranezze. Anzitutto, la pistola di Faheem Shamshad non aveva il colpo in canna. Perché dunque sparare così tanti colpi? Che bisogno c’era di sparare anche all’uomo in fuga, da dietro? E da quando i diplomatici vanno in giro armati con una Glock non registrata e un assegno in bianco, con nel bagagliaio della macchina un rilevatore Gps, un tronchetto, 75 pallottole di M16, un telescopio portatile, caricatori maggiorati, una torcia ad infrarossi, un telefono satellitare, altri cellulari, del make-up militare per nascondere il volto e alcune maschere?

Nella memory card della fotocamera digitale di Davis vengono inoltre trovate foto (trasmesse dalle televisioni pakistane) di ponti, mercati bombardati, strade che portano al confine con l’India, madrasse e moschee, campi di addestramento militare, riprese del Forte Balahisar (il quartier generale dei Corpi di Frontiera paramilitari a Peshawar). Rana Sanaullah, Ministro della Giustizia dello stato del Punjabi, non ha dubbi: “Questo non è il lavoro di un diplomatico. Stava spiando e facendo altre attività di sorveglianza”. Insomma, chi è veramente Raymond Davis? È, come ha detto Obama la settimana scorsa, “il nostro diplomatico in Pakistan”? O è qualcos’altro?

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Di lui si sa ha lavorato in Europa come militare, inclusa una breve esperienza in Macedonia. Nel 1998 entra nelle Forse speciali americane (i Berretti Verdi), dove rimane fino al 2003, anno in cui abbandona l’esercito. Approfittando del boom delle compagnie militari private, nel 2006 apre insieme alla moglie la società Hyperion Protective Services LLC, che tuttavia – stando a quanto dice un ex ufficiale delle Forze speciali contattato dal New York Times – offrirebbe solamente i “servizi” di Davis. Altre fonti ufficiali americane hanno confermato che quest’ultimo avrebbe lavorato anche per la Xe Services LLC, ovverosia ex Blackwater, la controversa società di mercenari operante in tutte le zone più calde del pianeta.

Il 20 febbraio il Guardian, citando ufficiali pakistani e statunitensi, è il primo media occidentale a rivelare la verà identità di Davis: agente della Cia in servizio all’epoca della sparatoria. In realtà i media americani, tra cui New York Times, Washington Post, Associated Press e altri, conoscevano la verità sin dal giorno dell’arresto, ma l’amministrazione Obama ha chiesto gentilmente di non pubblicare nulla, data la delicatezza dell’affaire – una mossa che è stata duramente criticata dal noto giornalista/analista di Salon.com Glenn Greenwald, che ha accusato senza mezzi termini questi media di farsi dettare l’agenda delle pubblicazioni dal governo.

Non si sa di preciso quando Davis sia stato assunto dalla Cia, e si può solo speculare sulle sue effettive funzioni in Pakistan, paese in cui è entrato nel 2009 con regolare visto diplomatico. Negli ultimi due anni Davis avrebbe fatto parte di un gruppo misto Cia-JSOC (Joint Special Operations Command, l’unità speciale antiterrorismo dell’esercito americano) con base in una safe house di Lahore, composto da cinque persone (tra cui probabilmente anche quelli alla guida della Toyota Land Cruiser), la cui missione sarebbe stata quella di sorvegliare e raccogliere informazioni sui gruppi militanti fondamentalisti. Un inquirente pakistano ha detto che “i suoi tabulati telefonici [di Davis, nda] indicano chiaramente che era in contatto con Lashkar-e-Jhangvi”, una cellula terroristica neo-wahabita vicina ai talebani attivi nella regione del Waziristan.

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Questi gruppi operanti nelle aree tribali del Pakistan sono sempre stati legati a doppio filo con l’Isi (Inter-Services Intelligence), il servizio segreto pakistano con cui la Cia ha rapporti molto complessi, segnati da collaborazioni e spesso e volentieri da tradimenti. Dalle indiscrezioni riportate dal giornale pakistano Dawn e da quello indiano The Indian Times risulta che i due uomini uccisi da Davis sarebbero stati agenti (o collaboratori esterni) dell’Isi, incaricati di pedinare l’agente della Cia perché aveva “oltrepassato una linea rossa”, “andando a rovistare nel cortile” del servizio segreto pakistano. L’Isi ha ovviamente negato la circostanza, ma dalla memoria dei cinque cellulari dei due presunti “agenti” (entrambi con un passato di piccole rapine e furti) emerge appunto che stavano seguendo Davis da almeno due ore.

Le conseguenze diplomatico-militari dell’”incidente di Lahore” potrebbero essere potenzialmente devastanti. L’agente della Cia, su cui pende l’accusa di omicidio, è attualmente rinchiuso e sorvegliato a vista da truppe d’élite nel carcere Kot Lakhpat. Non risponde a nessuna domanda. Il tribunale pakistano che sta seguendo il caso si è dato tempo fino al 14 marzo per decidere se concedere o meno l’immunità diplomatica secondo la Convenzione di Vienna, uno status che gli Stati Uniti stanno reclamando a gran voce ma che il governo pakistano sembra poco incline a concedere, anche e soprattutto per il timore di scatenare una rivolta di piazza sul modello egiziano. E non a torto.

La scorsa domenica, infatti, una folla di manifestanti si è riunita di fronte all’ambasciata americana di Karachi, chiedendo senza mezzi termini l’esecuzione di Davis, con tanto di suo manichino dato alla fiamme. La situazione si era ulteriormente (se possibile) complicata il 6 febbraio, quando Shumaila Kanwal, la moglie diciottenne di uno dei due uccisi, si era suicidata inghiottendo del veleno per topi. “Voglio giustizia. Voglio sangue per il sangue. Lui [Davis, nda] non dev’essere liberato. Ma non mi aspetto giustizia dal mio governo, ed è per questo che mi voglio togliere la vita”, ha detto la vedova in ospedale, prima di spirare. Una possibile soluzione potrebbe essere quella suggerita da alcuni ufficiali pakistani: scambiare Raymond Davis con Aafia Siddiqui, una pakistana condannata a 86 anni di carcere per aver ucciso il suo interrogatore americano in Afghanistan.

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L’intera vicenda, comunque, si solleva dalle polverose strade di Lahore e si va ad innestare sullo sfondo della relazione politico-militare tra Usa e Pakistan dai contorni costantemente offuscati e dalla circonferenza mai del tutto tracciata chiaramente, specialmente dopo l’inizio della Guerra Al Terrore. Bob Woodward, nel suo libro Obama’s War, scrive che nella mezzaluna musulmana ci sono almeno 3mila uomini come Davis (inclusi mercenari delle PMC), che operano illegalmente nel territorio e la cui presenza è ormai insopportabile per i cittadini pakistani, che vedono la propria sovranità calpestata da stranieri che vanno in giro armati e con licenza di uccidere.

Due anni fa, il settimanale americano The Nation aveva per primo rivelato l’esistenza (poi confermata da alcuni cable del Dipartimento di Stato pubblicati da WikiLeaks) di un programma militare segreto (iniziato nel 2007) portato avanti da JSOC, Cia e mercenari di Blackwater. I principali obiettivi del programma sono gli assassinii mirati di membri dei Taleban e di Al-Qāʿida, la ricognizione delle aree tribali e l’attività d’intelligence a beneficio dei bombardamenti dei droni americani. Una fonte dell’esercito aveva detto che questa missione segreta era talmente tanto “compartimentalizzata” che era possibile che persino ad alti livelli dell’amministrazione Obama e dell’esercito non si sapesse nulla. Anche il dipartimento di Stato ne è scarsamente informato.

Per utilizzare efficacemente nelle aree tribali questi droni è assolutamente indispensabile che le informazioni raccolte siano di eccellente qualità. Formalmente, il servizio americano e quello pakistano collaborano, ma in quella zona è l’Isi a farla da padrone. È quest’ultimo a decidere quando colpire, chi colpire e soprattutto dove colpire. Dopo l’arresto di Davis, la campagna di bombardamenti si era drasticamente fermata per quasi un mese; è ripresa solamente il 22 febbraio, quando un drone americano ha colpito dei presunti campi d’addestramento di Al-Qāʿida nel Waziristan del sud, causando 15 morti.

I rapporti tra Isi e Cia sono ai minimi storici. Lo scorso dicembre il capostazione Cia di Islamabad è stato costretto a fuggire dal Pakistan non appena il suo vero nome era finito in una causa civile. La mano invisibile dell’Isi dietro questa operazione è piuttosto evidente, e si tratta con ogni buona probabilità di una ritorsione per l’accostamento del suo capo, generale Shuja Pasha, agli attentati di Mumbai del 2008, contenuto in un’altra causa civile intentata a New York dai parenti delle vittime.

Gli interessi dei due servizi segreti sono destinati a correre parallelamente. E raramente a convergere. Le priorità dell’Isi, sin dalla sua creazione e dal suo rafforzamento negli anni Settanta, continuano a rimanere sempre quelle: l’annessione del Kashmir tramite azioni di intelligence; la conquista di posizioni strategiche in Afghanistan grazie a un governo vicino agli interessi pakistani; la promozione degli sforzi del governo all’acquisizione clandestina di materiale nucleare. L’Isi infatti non ha mai preso iniziative significative contro i nuovi taliban del mullah Omar e nemmeno contro Al-Qāʿida, che dal Balucistan e dalle zone tribali federali lanciano attacchi alla coalizione Nato che occupa il territorio afghano.

Il Grande, Eterno Gioco Che Si Svolge Nella Mezzaluna Musulmana

L’affaire Raymond Davis, se inserito in questo contesto, è l’ennesima riprova del fatto che il Pakistan in tutti questi anni non ha fatto altro che fingere di collaborare incondizionatamente con gli Stati Uniti nella loro fallimentare War on Terror, mentre quest’ultimi stanno portando avanti operazioni belliche non dichiarate, rischiosissime e potenzialmente contrari al diritto internazionale in una zona estremamente magmatica del territorio pakistano.

E questa, per usare le parole di Vikram Chandra, è la Grande Partita infinita, senza sosta, che se bloccata o circoscritta riprende il suo corso naturale, dove tutte le azioni sul campo sono dettate da una morale provvisoria, mentre il Gioco rimane eterno, e i suoi giocatori stanno seduti nel ganglio di una rete dove si intersecano linee di energia che percorrono l’intero globo terrestre vibrando, girando su se stesse e cambiando forma. Ma rimanendo sempre uguali.

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Drop the Hate / Commenti (1)

#1

kynodontas
Rilasciato il 25.02.11

certo che una glock dà sempre un certo tono all’ambiente

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