Storia Di Un Paese Dimenticato

Pubblicato da Blicero il 11.11.2010

“Questo è un altro Abruzzo” dice un volontario della Protezione Civile riferendosi al terremoto di due anni fa, il cappellino calcato sulla fronte, lo sguardo a scrutare l’oscuro orizzonte devastato dall’alluvione, un territorio in cui il confine tra l’acqua e la terra è sottilissimo, poroso, letale, e tra i campi e l’aria è spaccato e reso irregolare da capannoni, casolari, fabbriche, ville. L’unico rumore che solca il cielo tetro e metallico e ancora gonfio di pioggia è quello furioso e quasi nevrotico dell’idrovora “Baldon” di Bovolenta, comune di poco più di tremila abitanti appena fuori Padova, uno dei paesi più colpiti dal disastro che ha sommerso il Veneto. E uno dei più abbandonati.

Quando il 2 novembre gli argini si sono sgretolati e il fiume è tracimato ovunque, i cittadini sono stati colti alla sprovvista. L’allerta prevedeva al massimo trenta/quaranta centimetri di acqua; in realtà il livello, in quella che è una conca a cavallo tra il Bacchiglione e il canale Vigenzone, è arrivato in certi punti a tre metri. Un mare grigiastro, perso a vista d’occhio, in cui hanno galleggiato per giorni barili, balle di fieno, elettrodomestici ed esistenze interrotte. “Nessuno ci ha detto niente” scuote la testa un impiegato che ha visto la sua casa (con mutuo) completamente allagata. “Mi sono ritrovato l’acqua fino a qui”, prosegue portando le mani ad altezza del petto. Ha perso tutto. E, come lui, molti altri. “Hai visto il muro di Bovolenta?” mi chiede. Il “murazzo” del centro cittadino ha tenuto per miracolo, zampillando furiosamente acqua da ogni mattone: “Ecco, quella è una bomba innescata, pronta ad esplodere in ogni momento”. Se quel muro dovesse cadere, la città sparirebbe dalla faccia della Terra.

I soccorsi sono stati tardivi e i primi risultati si sono visti solo dopo qualche giorno, in larghissima parte soprattutto grazie alla rete della solidarietà e dello spontaneismo civile – sebbene i volontari non dispongano per forza di cose di un’organizzazione capillarmente organizzata ed efficiente al cento per cento. È passata più di una settimana da quel giorno maledetto e la situazione rimane ancora estremamente critica. L’acqua è stata quasi interamente pompata dalle idrovore e dalle idropompe, ma ha lasciato dietro di sé fango, melma e devastazione. Fuori da ogni abitazione ci sono cataste e cumuli di rifiuti, scarti, materiale ormai inservibile, una sorta di Leonia calviniana provocata dalle circostanze: forni, frigoriferi, scaldabagni, sedie, mobili, credenze, tavoli, quadri, assi di legno marcio, vernici, plastica, e così via. Non si può fare altro che esporre la propria spazzatura, una spazzatura che in qualche modo esige rispetto. E scavare, spalare, raccogliere, accatastare, cercare di pulire.

Luciano (padre) e Lorenzo (figlio) Brigato mi accompagnano in macchina fino alla palestra comunale, dove è stata allestita una mensa e la sera si tengono le riunioni cittadine. Nel 1992 e nel 1994 la loro casa era stata già colpita da altre due alluvioni che avevano messo in ginocchio l’intero paese. Quella volta lo Stato non risarcì nulla. A nessuno. “Abbiamo anche fatto una perizia per i danni subiti dalla casa dopo la prima alluvione, ma non ci è arrivato nulla. Al secondo giro non ci siamo mossi, era inutile”. La famiglia Brigato vive a Bovolenta dalla fine degli anni ’20 del secolo scorso: è la loro heimat (vocabolo tedesco che non ha equivalenti nelle lingue neolatine), il loro luogo natio, la loro piccola patria. L’uomo non è una pianta e può anche non aver radici, ma ha memorie, affetti, esperienze collettive e condivise.

Perché non è stata presa alcuna misura per evitare l’esondazione? Le cause sono le più disparate. Non ci sono fondi, anzitutto: in una delle regioni più produttive d’Italia, l’ambiente non paga, non è mai una priorità, è soltanto una faccenda emergenziale, estemporanea. La storia della regolazione delle acque in Veneto è millenaria, ha il suo apice sotto la Serenissima, con l’ingegneria idraulica dell’epoca a spostare armoniosamente percorsi, foci, canali e corsi d’acqua, Nel tempo, la spietata e progressiva cannibalizzazione industriale e cementizia del territorio si è intrecciata sempre più perversamente con disfunzioni istituzionali ad ogni livello, una burocrazia insulsa e inconcludente, la totale mancanza di pianificazione ambientale, le previsioni di legge strozzate in culla dall’incuria e dalla negligenza, la parcellizzazione delle competenze tra Genio Civile, consorzi di bonifica, micro-comuni, province e regioni, il dissesto idrogeologico perenne, un’incoscienza nelle strategie di prevenzione tollerata e incoraggiata – ed ora tirate tutti avanti, forza, continuate a lavorare, produrre, creare reddito, poi forse si vedrà, se del caso, fino al prossimo disastro.

Ai lati della palestra ci sono scatoloni di ogni tipo: vestiti, aiuti, tovaglie di plastica, cibo. Alzo gli occhi dal piatto e davanti a me c’è una signora bionda, minuta e combattiva che scuote leggermente la testa, abbozzando un sorriso gentile: “Non riesco a mangiare, non va giù niente”. La disperazione negli occhi di questi abitanti sconvolti e piegati è solo una sfumatura, una sensazione momentaneamente accantonata; prima vengono la dignità di chi lotta per sopravvivere e la grandissima rabbia che deriva dall’essere stati praticamente dimenticati dallo Stato e dai big media. In giornata è prevista la visita di Berlusconi e Bossi, ma qui nessuno ci fa caso – e anche se venisse effettuata, significherebbe soltanto appoggiare al muro la pala per qualche prezioso minuto ed assistere all’ennesimo falò della vanità istituzionale, al sacrificio compiuto in nome dell’Apparenza di Stato. “A Bovolenta? Chi vuoi che venga, qui…” Nessuno dà la colpa all’amministrazione comunale: si è “fatta in dieci, non in quattro”, ma è totalmente impotente, non ha la minima incidenza sul potere reale. Luciano Brigato si alza in piedi, mi tocca una spalla e fa: “Sai qual è la cosa più bella? La solidarietà di tutta la gente. Qui siamo tutti uniti”.

Uscito dalla palestra, due volontari della protezione civile mi portano in giro con l’automobile di servizio in questa parte di mondo solitamente nebbiosa, ferocemente industrializzata, in bilico perenne tra cultura rurale e urbanizzazione, ridotta ad un gigantesco acquitrino di fango e melma. “A fare il volontario puoi anche rimetterci qualcosina economicamente, ma quello che ti ripaga ampiamente è la soddisfazione, una soddisfazione che puoi capire e provare solo vivendo certe situazioni”. Uno dei due volontari, massiccio, ha i capelli bianchi e rughe a solcargli fieramente il volto. Sul braccio destro della divisa ha lo stemma dell’Aquila: è stato lì da poco, un’esperienza da cui “è tornato cambiato”. Apre una cartellina e mi indica i rapporti fotocopiati (a spese loro) che devono compilare sulle operazioni compiute ogni giorno, da faxare (a spese loro) al responsabile di zona. Quante Protezioni Civili esistono in un’unica istituzione? Ci sono questi volontari coperti di fango, ostacolati da meccanismi farraginosi che si devono applicare anche in situazioni critiche, e poi ci sono le alte sfere che appaiono e scompaiono nelle varie zone d’Italia, manifestandosi in happening improvvisi, accompagnati da flash, microfoni e telecamere. “Avete visto Bertolaso?” chiedo loro. “Forse lui ci ha visti, dall’alto” mi rispondono con una punta di sarcasmo, riferendosi al sopralluogo in elicottero effettuato dal capo della Protezione Civile il 7 novembre, cinque giorni dopo l’alluvione.

Titubante, il sole riesce a farsi strada tra la coltre di nubi plumbea, e i raggi freddi rischiarano il campo base allestito nell’area di una pompa di benzina, dove mi lasciano i due volontari. Mi dirigo verso la zona industriale e artigianale del paese, che si trova proprio sotto l’argine. L’atmosfera è surreale, post-apocalittica: è come se qualcuno avesse sganciato da un aereo invisibile una bomba che a contatto con il terreno è deflagrata violentissimamente in tonnellate di metri cubi d’acqua, inondando macchinari, attrezzature, telai, uffici, utensili – e potenzialmente un intero sistema economico. Aziende sul lastrico, operai senza lavoro, milioni, sudore e fatica sepolti dal fango e divorati dalle infiltrazioni. Il governatore Zaia ha già annunciato la trattenuta dell’Irpef, gli imprenditori la rivolta fiscale, ma a Bovolenta si pensa solo a spalare, a rimettersi in piedi, e il gioco politico che presumibilmente si consumerà sulle loro teste non scalfisce nessuno. Per il momento. “Adesso è arrivato il sole, quindi è tutto finito?” si chiede beffardo un volontario che trasporta del materiale fradicio in strada. Dei ragazzi scherzano fuori dal cancello di un’azienda, finché la madre non grida: “Ragazzi, tornate a lavorare che ne abbiamo da fare qui!”

Questo è davvero un altro Abruzzo? È un’esagerazione dettata dall’opprimente contingenza, o la situazione è realmente così compromessa? I media nazionali hanno considerato l’alluvione in Veneto, nel suo momento più critico, un fatto di portata minore, nonostante i dati siano eloquenti: 2500 sfollati, 121 comuni coinvolti, danni incalcolabili, discariche pericolosamente in procinto di scaricare liquami e percolato sui campi, gasolio nei canali e le idropompe dei vigili del fuoco ad aspirare l’inquinamento dai corsi d’acqua impazziti. Tutto ciò ha meritato soltanto qualche approfondimento mirato, dei reportage minimi, una serie di commenti laconici – del resto le case sono ancora in piedi (anche se quando si mette un dito sulle pareti sgorga l’acqua) e di morti ce ne sono stati solo tre, fortunatamente.

Ad oggi il governo ha stanziato la miseria di venti milioni di euro (una somma che non è sufficiente nemmeno a rimettere in piedi la sola Bovolenta) e ne ha annunciati altri 300, insieme alla sospensione dei mutui e ai prestiti bancari per 700 milioni. Lo stesso governo di cui è parte la Lega, partito che ha preso il 35% alle ultime elezioni regionali e che si trova nell’insanabile contraddizione di essere di lotta in Veneto e di governo a Roma, in bilico tra un esecutivo che è aggrappato con una mano sull’orlo di un precipizio politico di cui non si vede il fondo e delle elezioni anticipate che sarebbero il colpo di grazia definitivo per queste zone sommerse.

Non fa notizia, o la fa troppo tardi, questa alluvione. È perché i veneti sono antipatici, come dice Gian Mario Villalta, autore di “Padroni a casa nostra. Perché a Nordest siamo tutti antipatici”? O perché pagano a carissimo prezzo il continuo lamentarsi, la loro rabbia repressa contro il centralismo statale, il disprezzo e la sufficienza per le tragedie altrui, come ipotizza (tra le altre cause) Ferdinando Camon? Probabilmente entrambe. Ma c’è qualcosa di più profondo, un aspetto sfuggente, imponderabile, un nucleo misterioso e osceno sottovalutato e mai colto dai media nazionali, che preferiscono concentrarsi su notizie naïf, per loro sensazionali, morbose, più commerciabili nel ciclo mediatico. Il Veneto è una regione che non è capita, e che soprattutto non vuole farsi capire.

Qui la secessione è già avvenuta silenziosamente da un pezzo, lasciando questa terra isolata dal resto del Paese. Una Nazione che del resto vede questa sua parte di territorio solamente come un enorme capannone industriale popolato da stakanovisti ripiegati quasi autisticamente su sé stessi, che lavorano fino ad ammazzarsi per raggiungere e mantenere il benessere – una tremenda energia lasciata allo stato brado, potenzialmente autodistruttiva, incontrollabile, pronta ad implodere, mentre il vampirismo geoeconomico locale per troppo tempo è stato lasciato libero di affondare i suoi canini nella terra e succhiarne le risorse, deformando e sventrando un ecosistema che ad intervalli regolari gli si rivolta terribilmente contro. L’illusione è finita, i sogni spezzati, la frattura col resto d’Italia sempre più scomposta, raccontata accuratamente e con dovizia di particolari solamente dalla stampa del posto, letta e fruita da gente del posto, non attrezzata per bucare quelle insormontabili barriere culturali che poggiano saldamente sui confini geografici non scalfiti dal disastro ambientale – anzi, per adesso rinforzate – blocchi granitici di incomunicabilità che lasciano trapelare all’esterno solo brandelli scarnificati di informazione e incomprensione.

Sono circa le tre di pomeriggio del 9 novembre, e da lontano si intravedono le sagome di tre elicotteri (al cui interno si trovano Berlusconi e Bossi) che si fanno sempre più vicine, e il rumore delle pale sovrasta per un attimo Bovolenta. I velivoli disegnano le loro traiettorie nel cielo, una sorta di grottesco balletto aereo: è così che il rituale della presenza di Stato (schei garantiti, d’accordo, ma quando? e come?) si consuma debitamente a distanza, a svariati metri da terra, in ritardo, nell’indifferenza generalizzata. Le pale e i rotori repentinamente si confondono con il brontolio costante e regolare dei generatori e delle idrovore, le teste si alzano per qualche istante, un movimento impercettibile, poi si torna dentro quello che rimane delle proprie case e aziende e si continuano a spalare e portare in strada i resti di un passato che è stato spazzato via nell’attimo di un respiro, e di un futuro che ha un cuore antico, ma mai così lacerato come ora.

(Tutte le foto sono di Alessandro Rampazzo)

(Pubblicato anche su Giornalettismo)

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Drop the Hate / Commenti (3)

#1

la Volpe
Rilasciato il 11.11.10

Bravo, bravo, molto interessante. Ma perché eri in giro con la protezione civile in quei posti?

#2

paolo
Rilasciato il 12.11.10

Se non altro, con la visita di B&B l’argomento poi è stato ampiamente trattato dai media, specialmente dalle televisioni. Poi mi pare che sempre in giornata Berlusconi abbia fatto una capatina anche in Abruzzo. Giovedi prossimo invece dovrebbe andare la mattina a Napoli, poi per pranzo a Messina, e nel tardo pomeriggio ad Avetrana, che se ne sta parlando sempre meno.
Io sono Veneto, e vengo da quelle parti, anche se non ci vivo più. E’ vero che stiamo antipatici a tanti, e forse per questo un po’ il mio senso di Heimat si è arruginito. Il Veneto non è solo Lega, Zaia, Industrie, alta borghesia. C’è tanto Veneto fatto di contadini, di gente che vive dignitosamente del lavoro più nobile del mondo, che a prescindere dal voto, è un popolo semplice, sempre più anziano. Questa è una tragedia, ovviamente radicalmente diversa dall’Aquila. E lo Stato deve aiutare, chiunque. Spiace pensare però che… ci siano trattamenti di serie A e serie B riguardo la celerità dei fondi, essendo questa

#3

paolo
Rilasciato il 12.11.10

una regione molto appetibile politicamente. La solidarietà comunque tra cittadini e concittadini, non ha dialetto o bandiera, e chiunque nel momento del bisogno si aiuta, menomale. Ci meravigliamo della semplice umanità, che sopravvive anche tra i capannoni e i calzaturifici.

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