La Calunnia È Uno Tsunami

Pubblicato da Blicero il 29.11.2009

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Nel giornale si trova tutto. Basta leggerlo con sufficiente odio.

Elias Canetti

Quel che conta è credere nella propria causa: il resto non esiste. Mentre le indagini della varie procure sulle stragi ’92-’93 convergono sempre di più su un ex allenatore di calcio nonché bibliofilo siciliano traviato da pessime amicizie e su un misterioso imprenditore-viveur del Nord prestato alla politica grazie all’intercessione di Dio e dei falsi in bilancio, il fronte anti-antimafia si dimostra più compatto che mai. Scrivono sui loro giornali, portano avanti la loro battaglia, non fanno prigionieri e, soprattutto, non si vergognano affatto di quello che vanno dicendo da alcune settimane.

O’ anti-antisistema

Cominciamo dalla Campania. La regione ormai ha superato la Calabria nella quota di indagati/imputati/condannati che siedono al Consiglio regionale, ma questo è nulla in confronto all’appello lanciato da Saviano su Repubblica. Monnezza, collusioni, un territorio allo sbando: trascurabili cazzate, in certi ambienti. Le parole feriscono molto di più di una scarica di piombo o di un fusto di liquame tossico interrato sotto un campo. Il soldato Farina-Betulla deve sventare la minaccia che proviene dallo scrittore sotto minaccia camorrista – e riesce a farlo piuttosto agevolmente, dato che “dopo le ultime mosse si è palesato ormai come un avversario persino modesto” a cui la Storia “ha assegnato un vestito che ora gli va grande”.

Persa in 4-5 righe l’autorità morale conquistata con Gomorra, l’autore deve accontentarsi di “essere trattato come uno qualsiasi del solito giro degli estensori di appelli antiberlusconiani dall’italiano un po’ pasticciato”, quindi male, ed inoltre sarebbe anche ora di scendere dal “cavallo di bronzo”, dato che “non è ancora un monumento”. E anzi, Saviano si è trasformato “nell’icona immacolata del pensiero meno immacolato che ci sia”, diventando dunque “un giannizzero capo”, una “faccia di bronzo” che svilisce le sue medaglie “combattendo battaglie che non sono quelle per cui è giustamente onorato”. Insomma, Saviano, torna a pisciare nella villa di Sandokan/Tony Montana e non azzardarti ad uscire dal perimetro di Casal di Principe:

Del Piero siccome è bravo a fare gol e ha uno sguardo perbene reclamizza le acque minerali. Saviano, che ha fatto gol in letteratura e nella denuncia della mafia, ha accettato il ruolo di testimonial di quella specie di purga neo-staliniana che vuole eliminare dal consesso politico Berlusconi.

E Farina è intervenuto a piedi uniti, a gioco fermo e palla lontana. E la prova televisiva è stata inquinata.

Dopo di lui, naturalmente non poteva mancare Sandro Bondi, aka il Ministro della Cultura. Ministro della Cultura. Ministro della Cultura. Scusate, ma ogni volta che ci penso devo ripeterlo 3 volte per rendermene conto. Ad ogni modo, anche Bondi prende carta e penna, la intinge nella sua soave lingua da poeta crepuscolar-arcoriano e indirizza una missiva a Saviano via Repubblica. “Lei, caro Saviano, è onesto ed entusiasta”. Dunque è un soggetto pericoloso:

vorrei, proprio per questo, rivolgermi a lei chiedendole se non ritiene possibile trovare nuove vie d’espressione rispetto alla propensione degli intellettuali italiani a farsi partito e farsi impadronire dal demone della politicizzazione e della partitizzazione della cultura.

Ministro della Cultura. Ministro della Cultura. Ministro. Della. Cultura.

Dopo Farina e Bondi è il turno di Nicola “O’ mericano” Cosentino. In una leggiadra intervista a Libero1, dopo aver ribadito che nemmeno in caso di arresto è disposto a rinunciare alla candidatura alla Regione (nessun pericolo: la giunta per le autorizzazioni ha prontamente sventato l’evenienza votando contro la richiesta dei pm), dice che Saviano non ha “una vera percezione della camorra”. In effetti, stando alle accuse della procura, il fedelissimo berlusconiano è decisamente più titolato di uno scrittore condannato a morte e costretto a vivere sotto scorta ad occuparsi di criminalità organizzata. À la guerre comme à la guerre.

Non è cosa vostra

Passiamo alla Sicilia. Da circa una settimana Il Foglio si è appostato su una collina, ha imbracciato un fucile di precisione, ha passato della saliva sul mirino per colpire meglio ed ha impallinato il nemico più temibile del momento: il concorso esterno in associazione mafiosa.

Ora, il concorso esterno è una forma di incriminazione tutta giurisprudenziale, elaborata ai tempi del primo pool antimafia, ottenuta in seguito combinando gli artt. 110 e 416-bis del codice penale. Dopo la sentenza Demitry del 1994 (Sezioni Unite della Cassazione), la prima a teorizzare e circoscriverne l’impianto, le maglie si sono allargate: può esserci concorso esterno in qualsiasi momento di vita del sodalizio criminale. Tuttavia l’istituto ha creato non pochi problemi nel corso degli anni: se in astratto può essere un ottimo strumento per colpire i fiancheggiatori, nella pratica giudiziaria regge poco al vaglio di un tribunale. In 16 anni (dati aggiornati al 2007), 7190 persone sono state accusate per questo reato; 2952 sono state le richieste di archiviazione; 1992 i casi in cui è stato chiesto il rinvio a giudizio; 542 sono state invece le sentenze definite. Meno di 15 fiancheggiatori all’anno.

Il punto: è estremamente difficile ricondurre sotto una fattispecie penale comportamenti sfuggenti, liquidi, dai contorni poco definiti. Servirebbe che giuristi, magistrati e operatori del diritto si mettessero attorno ad un tavolo e discutessero seriamente la faccenda. Ma non succederà, almeno non di questi tempi. È decisamente più facile e remunerativo piegare l’argomento a seconda delle convenienze politiche contingenti. E così, mentre le dichiarazioni di alcuni pentiti sembrerebbero “ridisegnare” il contesto in cui sono maturate le stragi mafiose, agli house organ conviene muovere una blitzkrieg mediatica-falso-garantista con cui smantellare il reato e screditare tutti i magistrati che osano utilizzarlo.

Non è un paese da lotta alla criminalità, infatti, quello che usa un “mostro giuridico, terribile e viscido, che si presta all’utilizzazione extra penale per colpire condotte politiche che il magistrato inquirente di turno considera scorrette o sconvenienti”. Di più. Il concorso esterno è:

il vecchio reato di contiguità, una definizione opaca per situazioni opache da cui sembra davvero impossibile difendersi, quando si nasce in terre sensibili, si finisce per conoscere e magari frequentare amici o parenti di persone in odore di mafia e magari si decide di intraprendere una carriera politica.

E non è finita qui: secondo Giulianone Ferrara abbiamo a che fare con una “fattispecie di reato assurda e balorda che aggrava il già osceno facilismo con cui si pratica in Italia, tra i pochi paesi al mondo così radicalmente borbonizzati, il reato associativo”. Una vergogna, uno scandalo che “dovrebbe essere portato a conoscenza dell’Europa civile”.

Cosa devono fare dunque i malcapitati che cadono nella trappola giustizialista-stalinista, gli inquisiti per “chiacchiera concorsuale” secondo “le convenienze di questo o quel clan”? Semplice: siccome difendersi nel processo è vano e difendersi dal processo pure, “occorre difendersi dal reato più mostruoso al mondo”. Il compito ovviamente dev’essere lasciato a chi ha la forza ed il coraggio di mettere al muro il “mostro giuridico” peggiore del mondo, guardarlo negli occhi e ficcargli una pallottola in fronte, senza rimorsi o scrupoli di sorta. Ne va dell’impuni– cioè, della legalità.

Solo un governo, questo governo, ha l’autorità morale, la cultura giuridica e Alfano per fare ciò. Un governo che in questi anni ha fatto “niente, zero, meno di zero per favorire la mafia” e che anzi l’ha combattuta seriamente, attraverso l’esercito delle leggi ad personam, il processo breve, l’emendamento infilato in finanziaria per la vendita dei beni mafiosi confiscati, le strane frequentazioni di importanti plenipotenziari, le bombe affettuose, le cassate da 12 kg con il simbolo del biscione, le mostre dei vichinghi, l’eroe Mangano, Cuffaro, le dichiarazioni di Spatuzza, i Graviano e i loro affari al nord, e così via. Tutto, naturalmente, “in perfetta continuità con il meglio delle strategie falconiane e borselliane”.

Nella scena più famosa de “Il fantasma delle libertà” di Luis Buñuel, la relazione mangiare/defecare è invertita. Ci si trova a tavola per cagare tutti insieme con la stessa disinvoltura con cui si mangia, e si mangia da soli, in privato, con la stessa vergogna ed imbarazzo con cui si va in bagno. Ormai anche nella realtà odierna italiana qualsiasi elementare relazione è invertita – per il peggio. Per difendere il capo si mettono in campo le più circonvolute & cervellotiche stronzate, sempre più indifendibili, sempre più assurde, sempre più fragorose. Sempre più disperate.

Del resto, alla fine di ogni regime quelli che vengono mandati in prima linea sono vecchi e bambini, i più deboli, dato che i migliori sono già caduti in battaglia. E le donne se le è prese tutte Maometto.

(Pubblicato su ScaricaBile)

  1. Alcune domande: “Come ha fatto a conquistare una moglie tanto più bella e alta di lei?”; “Ricorda la sua prima cotta?”; “La sua prima volta?”; “Vero che sotto la doccia canta le canzoni di Califano?” []

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Drop the Hate / Commenti (1)

#1

ciasky
Rilasciato il 30.11.09

Cagare in pubblico e mangiare in privato.
Non si poteva riassumere meglio.

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