Sei Pezzi Da Mille

Pubblicato da Blicero il 6.07.2008

Di Giorgio Nebuloni

La prima volta che tentai di leggere “Sei pezzi da mille” venni rimbalzato all’indietro, come contro un muro di gomma. Scorsi una trentina di pagine senza capire assolutamente nulla dei fatti, dei personaggi, delle connessioni e dunque dei dialoghi. Restai basito, in bambola completa. L’atmosfera però l’afferrai, o forse fu lei ad afferrare me, fatto sta che non potei fare a meno di lanciarmi in un secondo coraggioso tentativo ripartendo da capo. La seconda volta che tentai di leggere S.p.d.m. ci restai spiaccicato contro, come un moscerino sul parabrezza. Finitolo saltai in piedi convinto di aver appena avuto un corpo a corpo con uno dei libri più significativi degli ultimi dieci anni.

Eppure non capivo cosa fosse stato a farmi barcollare prima ed entusiasmare poi. Dapprima pensai alla proverbiale crudezza di Ellroy, alla sua esibizione di violenza. Ma non era quello, non funzionava. Quello l’avevo assaggiato altrove senza alcun effetto collaterale di tipo esaltativi. Così mi misi a pensare, a ragionare sul romanzo. Conclusi che era il fatto che la creatura di E. fosse totalmente inedita a stendermi fisicamente. Intuii anche che le novità sostanziali e letali consistevano nello stile e nella coralità/storicità dei personaggi. Violenza, stile, storicità e coralità: i nodi sono di certo questi, ma finora temo di aver messo solo in difficoltà chi non ha mai letto il libro. Perciò rientrerò nei temi dalla porta spalancata di un riassunto iper-sintetico e iper-sommario, tentando di non rovinare il piacere di una eventuale lettura.

La narrazione dei fatti si estende tra il novembre ’63 e il giugno ’68, periodo che va dall’assassinio di JFK a quello di suo fratello Robert, passando per l’omicidio di Martin Luther King e la guerra in Vietnam. In ciò S.p.d.m. è la continuazione cronologica di American Tabloid, a cui la morte di JFK sta come conclusione.

Nel suo nucleo, S.p.d.m. è un romanzo di azione e conflitto. L’azione si sposta in maniera lineare sull’asse del tempo, ma multipla su quella dello spazio. Si salta continuamente da Las Vegas, perno della vicenda, a locazioni sparse per tutta l’America e oltre (Texas, Florida, Cuba e Vietnam sono solo alcune di esse). L’azione narrata non fa altro che seguire il conflitto come una telecamera mobile.

I tre protagonisti sono Wayne Tedrow Junior, poliziotto di Las Vegas corrotto e onesto al contempo, stretto tra un padre ingombrante, molto poco amico dei colored e una vendetta da consumare a tutti i costi; Ward J. Littell, ex-federale con le mani in più affari contrastanti e una specie di coscienza sballata che lo tormenta in direzioni incoerenti; Pete Bondurant, mercenario al soldo della mafia di Chicago, i cui interessi si sciolgono in un profondo anticomunismo per mettere in pratica il quale tutto è concesso.

Il conflitto è ciò che motiva e muove alla azione i tre protagonisti, che evidentemente hanno motivazioni eppure si trovano a combattere su fronti spesso coincidenti. Nessuna delle sfide dei tre è legale. Nessuna è compiuta agli ordini di qualche organizzazione ufficiale. In linea di massima, per questi tre uomini non esiste separazione tra coinvolgimento d’affari e implicazioni personali. Tutto è al contempo affari – dunque richiede spietata freddezza – e personale – e richiede vendette, più armi e soldi per compierle.

L’assassinio di JFK è il punto zero, quello in cui sono tutti bene o male coinvolti. Da lì partono fili di legami tra i protagonisti e le decine di personaggi di secondo e terzo piano che affollano il libro. Ellroy definisce questa galassia di “spezzaossa della Storia” come “The Life” ovvero la “connessione tra esuli cubani rinnegati, teste calde destrorse, tizi del KKK, poliziotti corrotti, cabarettisti da quattro soldi, agenti dello spionaggio”, l’insieme di persone ignote e con le mani in tutti i sensi sporche, che ha cambiato la storia dell’America influendo nei suoi eventi capitali, da Dallas alla candidatura di Nixon per le presidenziali del ’68. Ellroy si spinge a dire che “se un solo momento della loro vita avesse preso una strada diversa, la storia americana come la conosciamo non esisterebbe”. Dunque l’effettivo soggetto del romanzo è una coralità di uomini con un’ideologia comune di destra, alla quale tutti più o meno aderiscono, ma che negli obbiettivi concreti trova spesso conflitti interiori. Si può infatti essere anticomunisti ma non razzisti, reazionari ma non bombaroli, anticastristi ma anche antimafiosi, mafiosi e razzisti ma contrari alla vendita di eroina in America.

Per non parlare dei singoli individui spesso alleati a persone che disprezzano al solo fine di trovare la via per la loro vendetta. Così nel valzer perenne di tradimenti e posizioni oblique, solo Pete, Wayne e Ward restano sempre, in qualche senso originario e per nulla convenzionale, amici. I loro nemici si mischiano, si identificano, si confondono, montagne di conti in sospeso da saldare. Alle uccisioni si risponde con le uccisioni, la vendetta è il carburante emotivo senza il quale questi uomini diventerebbero macchine ferme ai bordi di una strada.

Sebbene questa massa di persone si inserita saldamente nell’accurato contesto storico descritto, E. non si propone di descrivere la storia pura e semplice. Certo non vuole nemmeno “romanzare” tale realtà rendendola poetica, leggibile e godibile, come una qualsiasi fiction. Il suo scopo è una via di mezzo tra i due, è usare i mezzi letterari per dire qualcosa di significativo sull’America del ’60 (e sull’America in generale, aggiungo io), rifiutandosi di separare realtà e finzione (“the one question I never answer about ‘The cold six thousand’ is what’s real and what’s not“) perché in fondo ora non c’è nessuna possibilità, per noi, di sapere se effettivamente siano esistiti quei cattivi di secondo piano e se fossero proprio così, e avessero esattamente quei complessi psichici o cosa.

Alla domanda sarebbe scontato rispondere: No! È falso! Tedrow e i suoi soci spaccaossa se li è inventati di sana pianta Ellroy, è ovvio, piantatela di dire assurdità! E potrebbe anche starci, se non che noi 1) non lo sapremo mai; 2) non siamo in nessun modo interessati a saperlo. Solo così possiamo davvero apprezzare quel che E. chiama “il tutto coesivo in cui eventi reali e immaginari sono stati co-optati”. La storia con la s minuscola, la storia scritta da E., ha inghiottito quella con la S maiuscola. La narrazione della storia è diventato un portare la Storia ad un livello più completo, proprio perché più discutibile. La Storia dei Grandi Eventi – ammesso sia mai esistita – può tornare in vita solo grazie ad una interpretazione e ad una narrazione. E. ci spedisce entrambe le cose con una posta prioritaria che è arduo non aprire.

Del resto, da che mondo è mondo, è questo lo scopo di ogni testo scritto: completare ciò che è accaduto (gli Eventi), piegarlo ai propri interessi, renderlo umano. E dargli un significato, un motivo.

Dalla sintesi – confusa, per la verità – all’analisi di coralità e storicità del racconto il passo è stato così breve da non accorgersi. Per quanto riguarda il motivo tematico, su cui imperniare la sua interpretazione degli eventi narrati, Ellroy non compie grandi spostamenti dalla sua produzione tipica. Il cuore tematico, senza il quale l’intera, labirintica galassia corale di rapporti umani delineata in S.p.d.m. non potrebbe proprio esistere, è sempre lo stesso: la violenza. Pura, nuda e cruda. Una violenza dal di dentro, sempre in atto e mai guardata a freddo, a posteriori, attraverso l’analisi autoptica di qualche cadavere pieno di indizi.

Se i thriller tradizionali, specie quelli di ultima generazione, sono spesso descritti come “macchinari perfetti di tensione e suspense” e il loro ormai arcinoto scopo è tenere il lettore incatenato alla trama, facendogli domandare ansioso cosa succederà e come, E. corre su una strada molto più impervia. Il suo tono non è mai quello macabro distaccato, tipo “Che schifo il cadaverino a pezzetti” tanto caro al thriller psicologico stile Deaver. (Non che io abbia alcunché contro Deaver e co., anzi, semplicemente fanno un’altra cosa rispetto ad Ellroy.)

Di sicuro E. è attratto dalla cattiveria dei suoi personaggi, al punto tale da coltivarla e trasmetterne il fascino anche a noi. Già leggendo qualche romanzo precedente a S.p.d.m, ad esempio ‘La collina dei suicidi’ o ‘Prega detective’, si era proiettati in un mondo durissimo, ultraviolento sotto qualsiasi punto di vista. La violenza era narrata, analizzata, inoculata nei personaggi del mondo fittizio fino a gonfiarli come bambolotti allo spasimo. Avevamo serial killer tra i più maligni mai immaginati e forze dell’ordine spesso più maniacali e schizoidi di loro. Morivano persone a cataste, sempre con dovizia di particolari.

Ellroy ci metteva, appena possibile, nei panni di colui che uccide, di colui che vede il polmone esploso o l’occhio cavato in diretta, e lo vede non sotto il microscopio dell’oggettività, ma dentro la sua caotica prospettiva. L’uccisione, lo stupro o qualsiasi altro delitto potevano rappresentare giustizia pubblica/privata (raro trovare una distinzione tra le due), oppure necessità implacabile o puro godimento. Ma certo la cattiveria non si limitava a serial killer così astratti da sembrare fantasmi.

La voluttà con cui E. da sempre naviga dentro la violenza ha spinto qualcuno a ipotizzato che la cascata di sangue in eccesso sia una trovata pubblicitaria, e altri a impacchettare il tutto nella scontata confezione regalo targata ‘voglia di trasgredire dell’autore’.

Le cose non vanno proprio così. In E. le situazioni più dure, i veri conflitti, finiscono coll’essere omogenei al resto del testo e all’atmosfera che il testo sprigiona. E. non piazza squarci di mostruosità in un ambiente regolare, normale. Lui mette l’ambiente intero – e la città di LA in primis – dentro la mostruosità. I rapporti tra colleghi sono più crudi delle sparatorie; le ossessioni sessuali dei ‘buoni’ superano quelle dei maniaci. Il mondo dello spettacolo, quello della politica, perfino la famiglia nel suo interno, è sullo stesso identico livello di violenza psicologica e ‘cattiveria’ del mondo criminale. I polizieschi di E. scoprono il volto della crudeltà umana soprattutto nel delineare le vite normali, quelli di tutti i giorni. La criminalità è solo il sintomo materiale evidente della malattia che corrode l’uomo. La malattia è ovunque. Si tratta della malvagità umana, della violenza metafisica nata pressappoco quando Eva ha colto una certa mela su un certo albero. Non per niente Ellroy si ritiene un “artista protestante”.

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#1

"Libra" di Don Delillo. C'è Un Mondo Dentro Un Mondo - La Privata Repubblica
Rilasciato il 30.10.08

[…] come la fonte primaria di ispirazione per la sua Underworld Trilogy – American Tabloid, Sei Pezzi Da Mille, Blood’s Rover. [↩] STAMPA var staf_confirmtext = ” #stafBlock { position: […]

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