Questa Volta Il POPOPOPO Non Ci Salverà

Pubblicato da Blicero il 21.06.2010

Il primo mondiale che ricordo nitidamente è USA ’94. Fortemente voluto da Kissinger, che oltre al napalm e ai colpi di stato amava molto il rettangolo di gioco, fu un mondiale decisamente camp, con delle maglie orribili, capigliature criminogene, Baggio, Bebeto-Romario e l’hijo de puta di un Luis Enrique oltremodo sanguinante. Dopo l’ultimo rigore sopra la traversa, in lacrime fanciullesche, giurai vendetta ai brasiliani, ripromettendomi di accoltellarne uno random qualora mi fosse capitata l’occasione. Molti anni dopo ho scoperto che è molto più semplice farli morire asfissiati e poi dire che si sono dati fuoco – premurandosi ovviamente di gettare il loro portatile in un lavandino pieno d’acqua.

Poi ci fu il tentativo nel ’98, sempre dei brasiliani, di ammazzare il mondiale, sfortunatamente mandato a carte 48 dai francesi (e non perché non fosse giusto battere una squadra che è arrivata in finale senza mai farsi la doccia a fine partita; ma far vincere i francesi: no). Il 2002 fu l’equivalente occhi a mandorla/nazionalismo orientale di Calciopoli. Il 2006: POPOPOPOPO.

Ora, ho smesso di seguire assiduamente il calcio in concomitanza con l’esplosione degli scandali nostrani. Non si è trattato di un impeto manicheo-giustizialista; piuttosto, mi sono reso conto – al di là del fantacalcio, le tribune televisive, Crudeli, Pizzul e Radio Padania – di trovarlo noioso. Noioso, decadente e socialista. Questi ultimi mondiali in terra sudafricana ne sono la riprova più lampante. Squadre improponibili che fanno risultato, le big inguardabili, i campioni spompati, le vuvuzelas apocalittiche, gli spot della Nike che provano a farci dimenticare la natura schifosamente rapace ed imperialista delle multinazionali. Se continua così, c’è il rischio concreto che si torni a parlare di apartheid e che al posto delle partite si proietti in loop continuo Morgan Freeman.

Il calcio, in parole povere, sta rovinando la civiltà occidentale così come la conosciamo. Lo sta facendo surrettiziamente, travestito da ludus di massa, ferino, economico, sentimentale, l’evasione prediletta di milioni di consumatori, Spaccarotella e tifosi addormentati negli autogrill. E noi non possiamo farci nulla. Arranchiamo, soccombiamo.

La sociologia, specialmente quella neocon, ci ha insegnato che la società in cui viviamo si è lentamente trasformata in un potpourri buonista e politicamente corretto in cui non esiste più la responsabilità (basti pensare alla BP e al Golfo del Messico), in cui ogni bambino è un vincente e il tuo bambino, su tutti, è speciale. Lasciatemelo dire: i vostri figli non sono speciali, sono degli idioti. E se usano i piedi al posto delle mani, sono delle scimmie. E, in un futuro nemmeno troppo remoto, potrebbero persino diventare consiglieri regionali con 12mila voti di preferenza.

Nel basket le mani si usano per puntare al cielo. Nel baseball le mani impugnano la mazza o raccolgono palline. Pallanuoto, pallamano, picchiare la propria moglie prima del tuo adulterio, respingere aiuti umanitari in acque internazionali: tutte nobili attività che non si possono certo fare con i piedi. Tiger Woods usa il suo obice a 650 zeri per giocare a golf. Nel calcio, invece, si usano i piedi e la testa – solo i portieri usano le mani, per poi rilasciare dichiarazioni sulla bontà del fascismo e indossare maglie numero 88. C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto ciò. Il calcio è precisamente il sogno che i liberali hanno della tragedia: un gioco pietosamente egalitario che obbliga tutti i partecipanti a conformarsi ad una disabilità livellante. Ed è per questo che è lo sport preferito del PD.

Il calcio è inoltre contro i doni che Dio ci ha regalato (le mani, e Megan Fox) per distinguerci dalle altre specie animali e dai francesi – che infatti sono l’unico popolo sulla faccia della terra che cammina scalzo in discoteca, beve dalle scarpe e indossa chaussettes verdi su mocassini beige – e dai giornalisti iracheni, che invece di sganciare bombe al fosforo lanciano calzature.

L’obiettivo primario di uno sport dovrebbe essere quello di vincere, fare a pezzi l’avversario, radere al suolo la squadra avversaria. Non nel calcio, in cui sono previsti il pareggio e i rigori, che sono l’esatta trasposizione del marxismo-leninismo, post-strutturalismo e decostruzionismo su erba. Quando si vince a calcio, non è una vera vittoria: è piuttosto la sconfitta dell’avversario. Prendiamo la finale di Champions di qualche anno fa, Milan-Liverpool, vinta (persa dal Milan) ai rigori dalla squadra inglese dopo un rocambolesco ribaltone dal 0-3 al 3-3. Se Ayn Rand ci ha insegnato che l’individuo è arbitro supremo del suo mondo e fautore del suo destino, e Himmler che un’organizzazione burocratica efficiente può veramente far funzionare qualsiasi cosa, quella partita ha semplicemente smantellato secoli di illuminismo e decenni di filosofia oggettivista, ci ha sparso sopra il sale del fatalismo e ha pisciato la sua inafferrabile carica mortale nella bocca del cadavere agonizzante, fino all’ultimo rigore di Shevchenko, nato non a caso nell’URSS.

L’ultima questione, forse la fondamentale, è che il calcio è uno sport intrinsecamente femminile. E non perché i capelli imbrillantinati, lunghi e sciolti dei calciatori sono perfetti per una serata al quartiere Marais di Parigi o una nottata in via Gradoli a Roma, dato che questa sarebbe la spiegazione più scontata e qualunquista. E neppure perché uno sport che fa piangere un attaccante della Corea del Nord non può sicuramente ergersi a baluardo di virilità. No, la ragione è che una partita di calcio è l’esperienza che si avvicina più di tutte al parto. Novanta minuti di travaglio, risultato incerto, mille complicazioni ipotizzabili, l’angoscia che tuo figlio possa iscriversi a 25 anni in un’associazione pro-life o finire in Comunione e Liberazione.

Nel basket, ad esempio, le cose sono più chiare, nette, mascoline: vince la squadra più forte, quella con il miglior talento. La mossa predominante è saltare e schiaffare la palla nel canestro, annichilendo totalmente l’avversario in una tensione ascensionale. A calcio le partite si possono vincere anche solo cadendo in area e trasformando il rigore con il “cucchiaio” – strumento che, guarda caso, è utilizzato anche per raschiare i resti del feto dopo un aborto.

Non sto dicendo, ovviamente, che si tratta di un complotto dell’internazionale socialista post-cadutadelmurodiberlino, anche se molte prove puntano verso quella direzione, tra cui un libro di David Yallop e la prossima puntata di Mistero.

Ma è chiaro che, dopo l’uso politico della giustizia fatto dal Tribunale di Milano, l’uso politico del calcio potrebbe essere uno (lo?) strumento veramente efficace per rovesciare l’attuale regime neoliberista, distruggere l’essenza dello spirito occidentale e convincere i finiani ad emendare il ddl sulle intercettazioni.

E questa ossessione per il calcio non fa che evidenziare la nostra natura masochista, dato che si tratta dell’ennesima ferita auto-inflitta nel nostro corpo europeo straziato da anni di guerre, barbarie, campionati pilotati, legge Bosman e Vaticano.

POPOPOPOPO.

Condividi

Drop the Hate / Commenti (3)

#1

ivo
Rilasciato il 21.06.10

articolo (come si dice di questi tempi) epico. Non sono daccordo solo sul punto “Il calcio, in parole povere, sta rovinando la civiltà occidentale così come la conosciamo…”
parafrasando il dilemma Alleniano e’ il calcio che imita la vita o la vita che imita il calcio? secondo me il calcio e’ solo uno specchio della civilta’ non il contrario, anche se forse non e’ che ci sia molta differenza…

#2

Roy
Rilasciato il 23.06.10

Giocate a rugby…

#3

mahoo
Rilasciato il 20.08.10

Ottima analisi del calcio/società.
Condivido per la maggior parte delle affermazioni…

@ ivo: il calcio è lo specchio della società…ma siccome è l’immagione riflessa bisogna gurdarla al “contrario”. Come per leggere correttamente una parola bisogna scriverla al contrario il calcio va visto solo al contrario per accorgersi che racchiude – forse – gli stessi problemi della società attuale.
Se visto al contrario, il calcio, appare come una marea di squadrette, squadre, società dilettantistiche, regionali o di borgata dove tutti tentano di imitare “quelli della TV”. All’inizio, divertendosi, in seguito e solo con il duro impegno e talento, cresci, ti migliori e avanzi di serie, ti illudi fino a che non ti accorgi che sei “vecchio” a 30 anni per giocare a calcio.
Un pò quello che succede a noi oggi. Lavori una vita fino a che non ti viene detto che sei vecchio per continuare e ti accorgi che hai finito di pagare la casa da 1 mese.

@todos: il calcio è solo un altro espediente per separare gli individui.

Fomenta la discussione

Tag permesse: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>