Il Dilemma Delle Pussy Riot

Pubblicato da Blicero il 26.10.2012

Il 22 ottobre Maria Alyokhina e Nadežda Tolokonnikova – due delle tre Pussy Riot arrestate e condannate per la «preghiera punk» dello scorso febbraio – sono state spedite nei campi di prigionia di Perm (Siberia) e Mordovia a scontare i due anni di pena. «Questi sono tra i campi più duri» di tutta la Russia, ha twittato la band. Prima dell’udienza d’appello, Vladimir Putin ha dichiarato che le Pussy Riot «hanno avuto quello che volevano», e che lui in questa vicenda non ha avuto alcun ruolo. E il 26 ottobre, sprezzante, ha aggiunto all’Independent: «Se non avessero infranto la legge, oggi sarebbero nelle loro abitazioni a sbrigare le faccende di casa, oppure tornerebbero a lavorare».

Inevitabilmente, il collegamento tra “Russia” e “Campi Di Prigionia” ha fatto schizzare il contatore dell’indignazione occidentale a livelli da Guerra Fredda. Il coro, del resto, è stato pressoché unanime: Ivan Denisovič! Solženicyn! Gulag! Kolyma! Stalinismo! Al netto di allarmismo e suggestione, non è esattamente così. Già alcuni mesi fa, dal Washington Post in giù, sedicenti esperti e commentatori tracciavano cupi parallelismi tra il processo (oggettivamente ridicolo) alle Pussy Riot e la repressione sovietica dei dissidenti politici.

In realtà, come ha scritto Mark Adomanis su Forbes, è impossibile capire il sistema di potere putiniano «se si usa lo stalinismo come parametro». Per fare un esempio: la Cattedrale del Cristo Salvatore, il “palcoscenico” della performance del gruppo, era stata demolita negli anni ’30 su ordine di Stalin per essere rimpiazzata da una piscina all’aperto. La Cattedrale è stata poi ricostruita negli anni ’90, con grandi sforzi e ingenti somme di denaro pubblico. Inoltre, scrive sempre Adomanis, «nello spettro che va dalla “democrazia liberale pienamente istituzionalizzata” all’“incubo totalitario”, Putin si colloca da qualche parte nel mezzo». E la vicenda di Ekaterina Samutsevič, la terza Pussy Riot detenuta, è la riprova sia di questa natura pericolosamente ibrida del Sistema, che della miopia (o malafede) degli oppositori interni e dei pundit occidentali.

Il 29 settembre Samutsevič annuncia di essere insoddisfatta del suo avvocato, l’istrionica Violetta Volkova, e di voler affidare il mandato ad un altro legale. La risposta di Nikolai Polozov (uno dei tre avvocati del gruppo) è decisamente passivo-aggressiva: «Rispetto qualsiasi decisione dei miei clienti. Ma nel caso di Katja, non escludo che la sua decisione sia stata presa sotto pressione». Non pago, Polozov continua ad addensare sospetti sulla scelta della Samutsevič: «Il trucchetto è semplice: una viene costretta a pentirsi e ottiene la libertà provvisoria, le altre rimangono dentro a marcire. Un approccio gesuita». Molti altri, specialmente su RuNet (l’Internets russo), si spingono più in là e parlano di «complotto» del Cremlino, ricatti dei servizi segreti e accordi sottobanco tra Samutsevič e autorità. Tutte queste teorie si sgonfiano non appena viene reso pubblico il nome del nuovo legale: Irina Krunova, che in passato ha anche difeso l’ex oligarca Michail Chodorkovskij, nemico giurato di Putin.

Il nuovo avvocato cerca di ridimensionare la partecipazione di Samutsevič alla «preghiera punk». Krunova, infatti, sostiene che la cliente non abbia mai preso parte attivamente alla performance – ossia: non ha scalciato e gridato sull’altare – dato che era stata bloccata dalle guardie all’ingresso della Cattedrale. Questa nuova strategia difensiva paga, e il 10 ottobre la Corte accorda la libertà provvisoria a Samutsevič.

Come si può vedere dal video, Alyokhina e Tolokonnikova esultano, abbracciano la loro compagna e sembrano genuinamente contente che una di loro sia riuscita a scappare da quell’inferno. Non si direbbe proprio che le due vogliano sgozzare la traditrice Samutsevič ed esibirne il corpo martoriato in Piazza Rossa, no? Eppure, una parte dell’opposizione russa e della stampa occidentale ci ha visto esattamente questo in quelle immagini. Il giornalista Kirill Martynov, ad esempio, scrive a caldo su LiveJournal: «Ekaterina Samutsevič ha ottenuto la libertà a costo di giustificare i tribunali russi e screditare l’intera mobilitazione a difesa delle Pussy Riot». Questo, invece, è il commento su The New Republic della giornalista russo-americana Julia Ioffe:

C’è qualcosa di marcio nella vicenda delle Pussy Riot. Certo, oggi c’è stata una buona notizia: Samutsevič, la più vecchia e tranquilla del gruppo, è stata scarcerata […]. [Le tre Pussy Riot processate] erano tutte sorrisi e abbracci. Ma non lasciatevi ingannare. Il collettivo Pussy Riot non è in buona salute.

Ad avviso della Joffe il Cremlino – liberando «la più vecchia e tranquilla del gruppo» (e la meno glam per i media, aggiungo io) –  non ha fatto altro che utilizzare la millenaria tecnica del divide et impera. E se da una parte questa narrativa può corrispondere al vero, dall’altro non riesce a mettere a fuoco il sottilissimo approccio utilizzato dalle autorità russe. Come argomenta Kevin Rothrock su GlobalVoices, la scarcerazione della Samutsevič puntava non tanto a dividere il gruppo, quanto piuttosto i sostenitori del gruppo. In secondo luogo, “graziando” il membro del collettivo tecnicamente «meno responsabile», lo Stato ha lasciato intendere che, almeno nel caso di specie, la risposta sarà proporzionata all’offesa1.

(Illustrazione: Akab.)

Nel reprimere le Pussy Riot collettivamente, senza curarsi delle responsabilità personali, le autorità russe volevano chiaramente spaventare oppositori e manifestanti. Ma è successo il contrario: l’intimidazione non ha funzionato; e le Pussy Riot sono diventate un marchio globale di protesta, delle martiri per la libertà. Digerito l’insuccesso i siloviki sono ritornati sui loro passi, si sono mostrati clementi con chi manifestava una parvenza di pentimento (Samutsevič non ha mai rinnegato nulla, però) e hanno lanciato nel campo dell’opposizione le granate del Sospetto e del Risentimento, proprio mentre erano in corso sfiancanti esibizioni del Lungo E Pavoneggiante Pene Della Dissidenza.

Una tattica davvero brillante, non c’è che dire, i cui esiti paradossali sono favolosamente riassunti in un tweet di Lev Sharansky2: «L’opinione pubblica democratica è indignata fino al midollo per la liberazione di Samutsevič».

  1. D’accordo: in Occidente il principio giuridico della proporzionalità è dato per scontato (anche se non sempre lo è). In Russia praticamente non esiste – specialmente nei casi “politici”. []
  2. Account fake di lungo corso che si occupa di sbeffeggiare certi atteggiamenti dei dissidenti. []

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