Fratello, Dove Sei?

Pubblicato da Tamas il 3.11.2010

Una sera dell’estate 2006 ero in una piccola birreria di Norimberga, intento a guardare la partita della Solania1. Seduto vicino a me c’era un croato, veterano di guerra, che diceva cose sorprendenti. Lo sport e la birra hanno il potere di rendere i giovani maschi emotivi e sinceri più di mille altre terapie e di mille altri accorgimenti, si sa; per questo motivo, non ho mai dubitato della sincerità delle parole di Damir, ma non le ho neanche mai capite: per quale motivo lo stupiva tanto la sua incapacità di tifare per i serbi? C’era stata una guerra, e lui l’aveva combattuta. Perché mai gli sembrava tanto strano e innaturale quel suo distacco? E perché mai voleva – giacché lo voleva con tutte le sue forze, si vedeva – colmare quel fossato e gioire per una vittoria serba?

Oggi, dopo aver guardato “Once Brothers“, ho forse trovato una risposta a quegli interrogativi che mi avevano così tanto colpito.

Si tratta di un documentario realizzato dalla ESPN e incentrato su una presenza e un’assenza, entrambe molto ingombranti: la presenza di Vlade Divac, che è anche narratore e principale protagonista del film; e l’assenza di Dražen Petrović, l’amico fraterno di Divac prima che un accidente di un secondo, prima ancora che la guerra, li dividesse per sempre e che la morte della guardia di Sebenico rendesse impossibile ogni riconciliazione.

Il film è incentrato su questa mancata riconciliazione e sul fardello di rimorso e frustrazione che ha oppresso Divac per anni. Gli interventi del coro (gli uomini della NBA che conobbero sia Divac che Petrović, ma soprattutto i due campioni croati, Kukoč e Rađa, che furono compagni di squadra di entrambi nella meravigliosa Jugoslavia di fine anni ’80) raccontano il progredire della vicenda, e delle vicende della Jugoslavia in via di frantumazione, fino alla loro drammatica fine, cioè alla separazione non soltanto delle repubbliche nemiche, ma anche dei due amici per la pelle. In molti sensi, questo documentario richiama “The last yugoslavian football team”, che narra gli stessi anni e la fine della Jugoslavia attraverso le testimonianze dei componenti dell’ultima nazionale di calcio unita2: ma se il documentario sul calcio racconta il fatalismo di quei campioni e la loro amicizia passata indenne attraverso la guerra, come se la guerra fosse un incidente sgradevole ma inevitabile, “Once Brothers” ha un impianto molto più simile ad una tragedia greca, e mostra l’ingigantirsi di un pugno di neve gettato dal destino sul ripido pendio di una Jugoslavia morente e la sua trasformazione in una catastrofe senza rimedio.

L’errore di Divac, quello da cui tutto ebbe inizio, fu una bandiera croata strappata e gettata via; un tifoso nazionalista voleva appropriarsi così della vittoria jugoslava ai mondiali del 1990 in Argentina. I suoi compagni croati, tuttavia, non equivocarono il gesto né gli diedero peso, e ci videro soltanto la difesa di una vittoria che apparteneva a tutti. Petrović fu l’unico a non perdonare l’amico; ma presto l’intera Croazia, aizzata da quella propaganda folle che prepara le guerre tra fratelli, gli divenne nemica e lo chiamò cetnico. Tre anni dopo, Divac non poté neanche recarsi a Zagabria al funerale dell’amico; per tornare in Croazia, avrebbe dovuto aspettare venti anni e il viaggio a Sebenico, via Zagabria, che sta alla base di questo documentario.

Nella faccia di Divac che cammina per Zagabria si legge certamente il timore e la paura di trovarsi in un contesto ostile (lo squadrano stupiti, lo chiamano cetnico), ma soprattutto si indovina quella sensazione che potremmo definire il disagio della paura: intendo il sentimento che si accompagna alla paura quando si avverte che l’ostilità che si riceve non soltanto è ingiusta e immotivata, ma è soprattutto fuori luogo.

Dal punto di vista visivo, Divac è perfetto nel suo ruolo. La sua figura sproporzionata è simile a quella di un Atlante che porta un mondo di sofferenza sulle spalle; Divac è un San Cristoforo o un Abel Tiffauges3 carico di molte colpe proprie e altrui. La sua figura gigantesca e goffa a passeggio nella capitale croata sembra marchiarlo; o forse rimarca invece, in una Zagabria linda e smemorata, l’impossibilità di rimuovere del tutto certe tragedie. Ancora più evidente è il contrasto tra la massa sovrumana del serbo e la tremenda normalità della casa di famiglia di Petrović a Sebenico: la vista di quell’omone imbarazzato alla porta della villetta, con in mano un mazzo di fiori assurdamente piccolo, rende la scena ancora più surreale, e riduce la rottura tra Divac e Petrović, e la guerra civile che l’ha causata, al rango di meschina lite in famiglia.

Ed è normale e sano che sia così: perché la guerra civile jugoslava è stata davvero – non è una metafora. È la realtà del sangue mistissimo versato – una lite in famiglia, perché croati e serbi (e bosniaci e montenegrini) sono indiscutibilmente un solo popolo con una sola lingua e un solo mondo racchiuso nei confini di quelle parole. Ché poi questo popolo unico si divida in tante altre diverse e tragiche identità, è un’ovvia evidenza; ma è un’evidenza anche che, per farli odiare di più e portarli alla follia, hanno prima dovuto confondere le loro lingue, perché i fratelli non riconoscessero più i fratelli.

Divac a Sebenico parla con la madre di Petrović come un figlio ritrovato, abbraccia il fratello Aza come un fratello, gioca con il cane di casa, scambia i banali convenevoli di una visita a qualche parente. E viene da pensare: se solo questi convenevoli fossero andati avanti, se solo quelle visite tra parenti non fossero mai cessate4, allora tutto questo non sarebbe mai successo.

In qualche maniera, non so tra quanti decenni e tra quante generazioni, gli slavi del Sud torneranno a cercarsi e ad unirsi; questa, ai miei occhi, è una certezza. Allora dovranno anche rimettersi a sfogliare e a completare gli album di famiglia e a raccontare le storie delle foto presenti e di quelle che mancano. Uno dei vuoti più visibili sarà quello di Dražen Petrović, morto sotto un camion mentre tanti suoi coetanei morivano in strada o in un campo, per un errore del fato sotto forma di scheggia o per precisa scelta di un carnefice. Petrović, il campione taciturno che non ha mai avuto l’opportunità di pronunciare quelle parole di riconciliazione che sarebbero state giuste e necessarie, resterà lì come un simbolo di una vicenda senza lieto fine.

E anche se davvero tutto dovesse ricominciare da capo, se tutte le ferite dovessero cicatrizzarsi, neanche allora ci potrebbe mai essere lieto fine: ci sarebbe soltanto un riposo più sereno per Dražen Petrović e per la sua bellissima generazione jugoslava, falciata senza motivo e senza pietà.

E forse potrebbero prendere sonno anche i fantasmi neri che devono aver dimorato per anni nel cuore di quell’omone serbo, i cui rimorsi, se sono grandi come le sue braccia che sotto canestro arrivavano dappertutto, devono essere stati un peso tremendo, capace di incurvare le spalle anche a un gigante.

  1. Quella artificiosa e poco funzionale creatura della diplomazia internazionale meglio nota come Serbia-Montenegro. []
  2. Colpisce sempre constatare il valore e la bellezza dell’ultima generazione jugoslava, capace nel calcio di produrre Boban, Savićević, Mihajlović, Šuker, Stojković, Bokšić, Mijatović, Prosinečki e nel basket Kukoč, Rađa, Paspalj, Divac, Petrović, Savić, Komazec, nonché i “cuccioli” Đorđevic e Danilović: per entrambe queste nidiate si parlò di zlatna generacija, “generazione d’oro”. []
  3. L’eroe molto atipico del meraviglioso “Il re degli ontani” di Michel Tournier. []
  4. Anche qui, si tratta di metafore fino a un certo punto: Dražen Petrović, la cui appartenenza etnica è un argomento controverso e per certi versi tabù in Croazia, era cugino di secondo grado del cestista serbo Dejan Bodiroga. D’altra parte Sebenico è prossima alla Krajina di Knin che ha avuto per secoli una popolazione prevalentemente serba. []

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Drop the Hate / Commenti (2)

#1

la Volpe
Rilasciato il 04.11.10

Bel pezzo, interessanti segnalazioni, proverò a recuperare i documentari. Credo che potrebbero interessare anche questi:

http://www.youtube.com/watch?v=uPm-ueXnj-Q
(e parti successive)

http://www.economist.com/node/14258861

#2

ivo
Rilasciato il 06.11.10

un pezzo da far scendere la lacrimuccia – nonostante avevamo i meneghin, caglieris marzorati ecc, amavo alla follia quei campioni, astuti, immarcabili, tutti dal talento cristallino che ci prendevano quasi sempre a calci in culo quando ce li trovavamo davanti. Ora restano solo le macerie di un’altra cultura rasa al suolo, assieme a molte altre, dalle ‘grandi menti’ del nuovo ordine mondiale – la vera peste del secondo millennio che continua a mietere vittime a ritmo incessante, non necessariamene e solo umane ma ancor prima di cervelli.
PS x chi e’ interessato nei canali torrent c’e’ il video completo (ovviamente solo in inglese)

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