Anatomia Di Una Giornata Andata A Puttane

Pubblicato da Blicero il 14.01.2013

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Cesare Lombroso A Piazza San Giovanni: Le Barricate Del Diritto

Le analogie tra Genova 2001 e Roma 2011 iniziano con il controllo della piazza – su tutte l’ossessione per le zone rosse – e continuano (come visto nella prima pagina) con la figura di reato usata per la repressione.

Negli ultimi dieci anni si è vista una certa evoluzione nelle tecniche di gestione della protesta. Ad avviso di Donatella Della Porta, «piuttosto che le teste spaccate in piazza (se non in casi occasionali), c’è stata una forte repressione strisciante»:

I poteri di polizia sono cresciuti da un lato grazie alle leggi sul terrorismo, dall’altro in relazione all’hooliganismo del calcio. Sull’esempio del Daspo, fogli di via, divieti di accesso a luoghi e città sono stati utilizzati contro chi protesta, così come lo sono state le multe e tutta una serie di strumenti che sono meno brutali delle manganellate, ma egualmente efficaci nello scoraggiare la protesta. Poi c’è l’applicazione di una serie di leggi che in passato non erano state quasi mai usate. Ad esempio, il reato di devastazione e saccheggio viene utilizzato per danneggiamenti minori che una volta erano perseguiti in quanto tali. C’è stata insomma un’escalation nell’utilizzazione di queste figure di reato, e questo incremento non coinvolge solo la polizia ma anche la magistratura.

Che questa evoluzione stia funzionando lo testimonia una lucida analisi/autocritica del collettivo Militant pubblicata subito dopo le dure condanne per i fatti del 15 ottobre:

Eccetto poche eccezioni […] ci sembra che questi processi siano molto poco sentiti dalla maggior parte del movimento. Forse molti compagni non hanno ancora una lettura adeguata della repressione, abituati a pensare che le sue forme più dure riguardino solo alcune aree. Del resto, la repressione di quella giornata ha mirato finora a punire con condanne esemplari persone e compagni non strutturati o appartenenti a realtà piccole o periferiche: lo scopo era evidentemente quello di frazionare la solidarietà e, in parte, è stato raggiunto.

Per quanto riguarda il reato di devastazione e saccheggio (art. 419 del Codice Penale) – che, come scrive l’Avvocato Lorenzo Contucci, era stato «dimenticato di fatto per anni» – la fattispecie è tornata «prepotentemente alla ribalta, utilizzato dalle procure della Repubblica principalmente per reati divenuti di allarme sociale».

Il delitto in questione nasce con il Regio Decreto del 19 ottobre 1930 n. 1398, ed entra in vigore il 1° luglio del 1931. Questo il testo della norma:

Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’art. 285, commette fatti di devastazione o di saccheggio è punito con la reclusione da otto a quindici anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso su armi, munizioni o viveri esistenti in luogo di vendita o di deposito.

Quello che salta subito all’occhio, oltre al tenore letterale dell’articolo, è la severità della pena. «Nella scala gerarchica di coloro che commettono reati contro l’ordine pubblico», scrive Contucci, il devastatore/saccheggiatore «è secondo solo a Totò Riina e, nel panorama complessivo regolato dal codice penale, commette un reato più grave di chi partecipa ad una insurrezione armata contro i poteri dello Stato o di chi si pone a capo delle Brigate Rosse o dei N.A.R».

I problemi, però, cominciano a sorgere proprio sulla definizione di «fatti di devastazione». Una sentenza della Cassazione del 1973 ha specificato che l’art. 419 incrimina «i fatti di danneggiamento indiscriminato, vasto e profondo di una notevole quantità di cose mobili o immobili, che risultino idonei a turbare l’ordine pubblico». Contucci, però, ha correttamente rilevato che «il concetto di “vastità” e “profondità” è ambiguo, in quanto lasciato alla più pura discrezionalità di chi osserva e valuta, al pari del termine “notevole”».

Inoltre, continua l’Avvocato, «qualsiasi reato, a ben vedere, comporta la lesione dell’ordine pubblico, perché ogni disarmonia giuridica incrina l’ordine, se per tale s’intende il sistema delle leggi che regolano il vivere civile negli spazi pubblici e aperti al pubblico». Il rischio maggiore, insomma, è che l’ambiguità della formula legislativa si presti a forzature interpretative che seguono le contingenze politiche.

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La maggior parte delle critiche rivolte a questa forma di reato si è concentrata soprattutto sulla sua “politicità”, cioè l’origine fascista dell’istituto. In realtà, il substrato ideologico di questa norma è radicato sin dall’Unità d’Italia, come ricostruito in un lungo articolo (“Dissenso politico e diritto penale in Italia tra Otto e Novecento”) scritto dal giurista Mario Sbriccoli e pubblicato negli anni ’70 sui Quaderni Fiorentini.

Un po’ come adesso, l’equilibrio politico nell’Italia di fine ‘800 era estremamente precario, e «tutta la struttura del potere – intesa come complesso che coinvolge ceti proprietari, classe politica, corpi separati dello Stato e settori sociali comunque interessati alla conservazione dell’esistente – si muove in un grumo di contraddizioni». All’epoca, la contraddizione più radicale era quella tra «le esigenze dello sviluppo [ora, invece, ci troviamo di fronte all’esigenza di «fermare il declino» (cit.), nda]) e le tensioni sociali che da esso inevitabilmente nascono». Questa contraddizione è all’origine di una «serie di spinte repressive» (specialmente nei confronti del movimento anarchico) e della «tendenza delle istituzioni a difendersi col mezzo giuridico quasi usandolo come avamposto lontano, e quindi rassicurante, della cittadella del potere».

Si profilava dunque la necessità di sistematizzare il concetto di «reato politico». Per il giurista maceratese Pio Barsanti, «il fondamento del reato politico è nell’offesa alla libertà dei consociati, e più in concreto, alla libertà della maggioranza». In questa breve definizione, scrive Sbriccoli, c’è

una precisa ideologia del reato politico inteso come strumento di difesa non solo della classe dominante, delle forme di governo che essa ha scelto e di tutti gli strumenti ausiliari del suo potere, ma anche della classe politica in quanto tale, cioè del potere di coloro in particolare che gestiscono la cosa pubblica in un determinato momento.

Nel libro L’anarchia e gli anarchici, il Questore di Roma (nonché consulente di Francesco Crispi) Ettore Sernicoli è convinto del fatto che «che il diritto penale è un’occasione offerta alla polizia per affermare il suo potere, piuttosto che una delle manifestazioni della coscienza e della volontà, se non dei cittadini, almeno dello Stato in astratto». Sernicoli sostiene anche che il «reo politico» (che può essere mosso da «fede ideale o da sete di giustizia») dev’essere punito più severamente del «reo comune» perché «ha dalla sua […] la simpatia dei cittadini».

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Il padre più “autorevole” del concetto di «reato politico» è sicuramente Cesare Lombroso. Ne Il delitto politico e le rivoluzioni in rapporto al diritto, all’antropologia criminale ed alla scienza di governo, Lombroso chiede pene più gravi per i reati politici (considerati una «patologia sociale») e menziona esplicitamente la devastazione e il saccheggio in questo passaggio di spaventosa attualità:

Sarà pure opportuno collocare i reati di saccheggio e di devastazione fra i reati contro la proprietà, quando non rivestano il carattere di ostilità di una classe sociale contro l’altra, allorché questo si riveli, occorre evidentemente una speciale e più severa sanzione, che tuteli lo Stato da questi  attentati, di cui è evidente il contraccolpo nel campo politico.

Dopo 350 pagine di analisi “scientifiche” e discorsi sul filo della «legge della maggioranza, che è in fondo legge di natura»,  Lombroso arriva finalmente a elaborare una definizione di delitto politico:

Delitto politico è per noi ogni lesione violenta del diritto costituito della maggioranza, al mantenimento e al rispetto dell’organizzazione politica, sociale, economica, da essa voluta.

Per Sbriccoli, una simile definizione non poteva dispiacere «alla Corte di cassazione, agli altri gradi della magistratura, al Ministero degli interni ed al Capo della polizia» di fine ‘800. E forse – aggiungo io – non dispiace nemmeno agli omologhi del terzo millennio.

+ + +

(Foto – p. 1: *zak*Simona Martini / p. 2: BarudaBaruda  / p.3: Simona MartiniBaruda)

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Drop the Hate / Commenti (4)

#1

El_Pinta
Rilasciato il 14.01.13

Ottimo post in margine a cui ti chiedo un’opinione personale.
Pensi davvero che l’intervista di Bonini sia attendibile?

#2

Girfalco
Rilasciato il 14.01.13

Complimenti, grazie per l’analisi, davvero ben fatta.
In merito, mi sembra un controsenso difendere una maggioranza (visto che in teoria dovrebbe autodifendersi in quanto tale).

#3

Gianni Gallina
Rilasciato il 15.01.13

Davvero un ottimo articolol
cosa ne pensate del servizio delle Iene su Barbareschi?

https://www.facebook.com/photo.php?v=10151417427555530

grazie vi ascolto sempre
complimenti per la trasmissione

#4

McLaud
Rilasciato il 28.01.13

Come al solito, un articolo ben scritto e ben documentato.

Aggiungo solo che se è vero che vi è parte della magistratura che condivide il genere di interpretazione ed applicazione del diritto penale che hai ricostruito, c’è anche una quantità di giudici che si sottraggono alla meccanica trasmissione dei meccanismi di tutela del potere o anche a quelle limitative della libertà d’espressione (e basta pensare alla sentenza della Corte costituzionale sul reato di associazione antinazionale o alla sostanziale disapplicazione che molti altri delitti “contro la personalità dello stato” conoscono nella prassi).

Per altro verso, non mancano giudici che si prestano a manovre di carattere politico e l’esito delle vicende processuali seguenti al G8 di Genova è in questo senso quanto meno emblematico, con De Gennaro assolto da ogni accusa, mentre diversi alti funzionari vengono condannati – alcuni ingiustamente – a mo’ di capri espiatori (senza che vengano inoltre concesse le attenuanti generiche, in genere automaticamente riconosciute a chiunque: da mafiosi a terroristi, da politici a delinquenti comuni…).

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