La Puttana Di Akron
Don Winslow, nel suo romanzo Il potere del cane, scriveva che “si diventa ciò che si odia”. Ma nel caso di Scott Raab è impossibile diventare come LeBron James. Il primo è un giornalista sessantenne di Esquire nato a Cleveland che abita nel New Jersey, ha un peso variabile tra i 130 e i 170 kg ed un passato di alcolismo, abuso di stupefacenti e problemi mentali. Il secondo è un’ala piccola di 2.03 metri che ha la velocità e la tecnica di un playmaker e le movenze di una guardia, nonché uno dei migliori giocatori mai apparsi nell’NBA – se non il migliore di tutti i tempi. King James. The Chosen One. O, come lo chiama Raab, “The Whore of Akron”, la puttana di Akron. Che è anche il titolo del suo primo libro, uscito il 15 novembre 2011 per HarperCollins con il sottotitolo “One Man’s Search for the Soul of LeBron James”.
In vista del draft del 2003 i Cleveland Cavaliers, franchigia creata nel 1970, fecero di tutto per perdere più partite possibili e aggiudicarsi il piazzamento migliore nel sorteggio. LeBron James, nativo di Akron (Ohio, vicino a Cleveland) era diciannovenne e già una star. Aveva appena finito la St. Vincent-St. Mary High School, Sports Illustrated gli aveva dedicato una copertina, era sotto contratto con la Nike e sua madre, Gloria James (che lo aveva avuto ad appena sedici anni), gli aveva regalato un Suv con i proventi della pubblicità. Fu ovviamente la prima scelta assoluta.
L’ultimo titolo vinto da una squadra di Cleveland risale al 1964, anno in cui i Browns conquistarono la NFL. Scott Raab, all’epoca dodicenne, era lì e si ricorda benissimo il sapore della vittoria. Conserva gelosamente il biglietto di quella giornata irripetibile e per tutto il libro lo mostra di continuo a giocatori, amici e colleghi. Del resto, quella è stata l’unica volta in cui essere un tifoso di Cleveland non è significato tornare a casa dallo stadio, dal Richfield Coliseum e (dal 1992) dalla Quicken Loans Arena con un opprimente senso di disfatta e umiliazione. Il declino sportivo è corso parallelo a quello socio-economico della Rust Belt – la regione manifatturiera del Nord-est entrata in profonda crisi negli ultimi decenni a seguito alla chiusura di moltissimi stabilimenti e acciaierie – e quello generale di Cleveland, che dagli anni ’50 ad oggi ha vissuto un calo demografico vertiginoso e nel 2010 si è aggiudicata il primo posto nella lista delle peggiori città americane compilata da Forbes.
Non sorprende dunque che per Scott Raab e per l’intera città LeBron sia qualcosa di più di un semplice giocatore che indossa il numero 23 in onore a Micheal Jordan. James è uno di loro. È un campione cresciuto nei sobborghi di Cleveland tra la povertà e una famiglia disfunzionale. È la speranza di redenzione per tutti: bianchi, neri, giovani, vecchi, east side e west side. I Cavs diventano una delle teste di serie dell’NBA, o come scrive Raab, “la cosa migliore che sia capitata a Cleveland”. E guardare LeBron, “il miglior fottuto giocatore di basket che abbia mai visto”, è “un onore e un privilegio”. Nella stagione 2006-2007 i Cavaliers arrivano in finale NBA, dove però vengono spazzati via dai San Antonio Spurs. In quelle successive centrano sempre l’obiettivo post-season, ma non riusciranno più ad arrivare in finale. Nell’estate del 2009 Dan Gilbert, proprietario della franchigia, porta Shaquille O’Neal (proveniente da un’esperienza personale non esaltante con i Phoenix Suns di Steve Nash) a Cleveland. Insieme a Delonte West, Mo Williams, il lituano Žydrūnas Ilgauskas e il brasiliano Anderson Varejão, LeBron punta al primo anello. E Scott Raab incomincia a scrivere il libro che, nelle sue intenzioni originarie, avrebbe dovuto raccontare la trionfale cavalcata della squadra della sua città.
La regular season si conclude con il miglior record della Lega (61 vittorie e 21 sconfitte), e James vince per la seconda volta consecutiva il titolo di MVP, ossia di miglior giocatore della Lega. Arrivano i playoff. Dopo aver eliminato al primo turno i Chicago Bulls dell’astro nascente Derrick Rose, al secondo turno i Cavs si scontrano nuovamente contro i veterani dei Boston Celtics, che già li avevano eliminati nel 2008 andando poi a vincere il titolo. La squadra gira male. Mo Williams (che ama farsi chiamare Mo Gotti, come il leggendario mafioso John Gotti) tira con percentuali infime e LeBron, acciaccato da un infortunio al gomito destro, non riesce a fare la differenza come al solito. I Cavs si arrendono: finisce 4 a 2 per i Celtics. Imboccando il tunnel per gli spogliatoi, James si sfila la maglia e rimane in canottiera nera. Il suo contratto è scaduto. Da quel momento è un free agent: può andare dove vuole. È l’ultima volta che indosserà i colori di Cleveland.
L’8 luglio 2010 è il giorno della Decisione, “The Decision”. Durante l’apposito speciale ESPN, LeBron comunica a tutto il mondo l’intenzione di “portare i miei talenti a South Beach”, cioè nei Miami Heat di Dwyane Wade e Chris Bosh. A Cleveland si registrano scene da intifada. La gente piange e grida nei locali, si riversa in strada e brucia la maglia n. 23. James non è più il Prescelto, il vanto della città. È un traditore. Il peggiore dei traditori. E per Scott Raab, sconvolto dal disinteresse mostrato dal Re nei confronti di Cleveland, d’ora in poi è la “puttana di Akron”:
Per sette anni, LeBron ha fatto esattamente quello che fa una prostituta degna del suo tariffario: ha fatto i rumori giusti, ci ha confidato quanto fosse bello, quanto fossimo grandi, quanto ci amasse, quanto fossimo speciali. Non ci ha mai detto di non accarezzargli i capelli.
A quel punto il libro di Raab non può che trasformarsi in un attestato d’odio. Il giornalista di Esquire segue James nei palazzetti NBA di mezza America (fino a quando l’ufficio stampa degli Heat non gli ritira l’accredito), offende in tutti i modi l’ex Cavs, lo confina al nono cerchio dell’inferno dantesco (quello riservato ai traditori), arriva addirittura ad augurare un infortunio che gli stronchi la carriera ed esulta quando Dirk Nowitzki e i Dallas Mavericks strappano dalle mani degli Heat un titolo che sembrava loro sin dalla roboante presentazione estiva dei Big Three.
“The Whore of Akron”, tuttavia, non è una semplice, viscerale invettiva scritta in stile gonzo – sebbene in questo caso le anfetamine e gli acidi siano rimpiazzati dal Vicodin e dalla sciatica. Quello che rende veramente interessante il libro è la ricerca dell’identità dello stesso Raab. Del Raab ebreo, figlio di un padre assente e di una madre non all’altezza del suo compito. Del Raab scrittore, giunto alla stabilità mentale e finanziaria solo dopo i quarant’anni. Del Raab padre di un figlio avuto a 47 anni e marito di una moglie che amorevolmente lo masturba mentre guarda i playoff. Del Raab tifoso (“il tifo è stato essenziale, una parte di me senza la quale non avrei mai conosciuto la mia anima”), disgustato dall’onnipresenza del business nell’NBA, che cerca in tutti i modi di capire perché James abbia lasciato Cleveland – e più in generale perché Cleveland sia destinata a rimanere confinata in un limbo sportivo costellato da delusioni e brucianti fallimenti.
Il “tradimento” è stato particolarmente doloroso per l’autore perché LeBron, più che tradire la sua squadra, Dan Gilbert e i suoi compagni, ha tradito Cleveland e i suoi cittadini: “Avrebbe potuto riscrivere la nostra storia, restituirci il nostro orgoglio e, dopo mezzo secolo, renderci finalmente importanti”. Ma in un colloquio con Raab riportato nel libro, Jimi Izrael, giornalista di colore di Cleveland, legge il comportamento di James con altre lenti:
Ascolta: per i neri la libertà significa qualcosa di diverso, forse qualcosa di più. I bianchi vedono LeBron come un traditore che ha voltato le spalle alla sua città. I neri, anche i fan più accaniti, vedono un nero che ha fatto delle scelte per sé e per la sua famiglia senza esitazione o rammarico. Proprio come fanno i bianchi.
Il 7 novembre Scott Rabb è in maniche corte e si avvicina con passo pesante alla villa di LeBron James ad Akron – una reggia di più di 3000 m² con tanto di cinema, pista da bowling, casinò, guardaroba di circa 200 m² e barbiere personale. “Volevo lasciare questo per LeBron”, dice il giornalista alla guardia che staziona oltre il cancello, mentre faticosamente si china per appoggiare a terra “The Whore of Akron”. “Ok. Farò in modo che lui lo riceva”, risponde la guardia. Poi raccoglie il libro e sparisce dietro le mura che delimitano il reame del Predestinato.
Non sappiamo se il libro sia finito nel cestino o sia stato consegnato a LeBron. Ed anche qualora si fosse verificata la seconda ipotesi, è probabile che James non abbia letto – e mai lo farà – le 320 pagine dell’autore di Cleveland. Ma farebbe bene a farlo. “Quello che un altro vede in te rivela quella persona. Quello che tu vedi in un altro rivela quello che sei – scrive Raab poco dopo la metà del libro – Ciascuno di noi è uno specchio”. E in “The Whore of Akron” LeBron potrebbe rivedere se stesso nelle Finals del 2011, o anche nei playoff precedenti, come un ragazzo cresciuto ad Akron, Ohio, non ancora abbastanza forte e maturo da reggere il peso di essere il migliore.
#1
Tyler Durden
Come scrisse Wilde: “Per ogni effetto che produciamo ci facciamo un nemico, per essere popolari occorre essere mediocri”.