I Mastini Della Balera

Pubblicato da Dott. Barbie il 28.11.2011

(Pubblicato anche su BILE N. 3. Illustrazione: Mario Perrotta.)

“Dicci chi è stato.”

Il vecchio si cagò addosso, gli occhi sbarrati dal terrore e i denti che battevano come se la polizia egiziana avesse sparato dei lacrimogeni sulle gengive. Il mio aiutante – un ragazzo-soldato congolese di 11 anni che avevo “liberato” dalla sua famiglia per due kg di pane raffermo e il capitolo mancante sull’ENI di Petrolio di Pasolini – continuava a fargli ingurgitare acqua e sale.

“Su, avanti. Sono già tre ore che andiamo avanti. Non ti va di tornare a casa e ascoltare un bel 33 giri?”

Il vecchio scuoteva la testa. Piangeva. Non so nulla, ripeteva ossessivamente. Davvero, io non c’entro, sono solo un pensionato. Era già il sesto che “interrogavamo” durante quella giornata. Alle 7 di mattina Little T., lo Splendente Generalissimo di San Marino, si era alzato come al suo solito, aveva fatto partire la filodiffusione e stava per bere la consueta razione di latte quando un certo torbidume nel bicchiere lo aveva insospettito. Le analisi avevano rivelato che la bevanda era piena di tetracloroetano.

“Hai cercato tu di avvelenare il Generalissimo, vero? Se confessi e ci riveli chi ti ha mandato, ti garantisco personalmente che mi attiverò presso le strutture di comando per farti deportare in Italia. Sano e salvo”.

Niente. Il vecchio era più muto di Andreotti davanti alla Commissione stragi. Ordinai all’aiutante di abbassargli i pantaloni, rimuovere la merda e scappellarlo. Dissi di aspettare un minuto in quella posizione. Il vecchio cominciò a mugugnare e dimenarsi sulla sedia. Tornai con un sottile pezzo di ferro arroventato ed un ultimatum: fuori i nomi, o l’attempata uretra diventerà la riedizione di Mogadiscio ’94 in formato anatomico.

Il vecchio urlò: “CASINI. È STATO CASINI. SU MANDATO DELLA CEI E DEI CARDINALI.” Come sospettavo. Pierferdinando Casini, il nuovo premier italiano e leader di Democratura Cristiana-Sesto Polo. E il Vaticano. Chi altri poteva aver ordito una cosa del genere? Rassicurai il vegliardo: sei libero, ora. Hai fatto la cosa giusta. Sarai premiato per queste informazioni. Il ragazzino congolese lo rivestì, slegò le manette e la corda e gli fece tracannare il resto della caraffa. “Non è che devi andare in bagno, per caso?” mi rivolsi al vecchio. Lui annuì con forza, asciugandosi le lacrime con la manica della giubba. Indicai una porta: “Il bagno è lì”.

Il vecchio corse verso la meta, si sfilò repentinamente le mutande e afferrò il raggrinzito arnese per compiere l’agognata minzione all’interno del pissoir in porcellana. Non appena il getto d’urina raggiunse la piccola grata metallica necessaria a far defluire i liquidi, il vecchio venne raggiunto da una scarica fulminante e stramazzò a terra attraversato da atroci convulsioni. La grata era collegata all’impianto elettrico. Entrai nel cesso e sorrisi. Il “Vespasiano à la Barbie” funzionava a meraviglia.

All’inizio, nell’estate del 2011, tutti l’avevano buttata sul ridere. Little T. presidente di San Marino? Certo, come no. E perché non mettiamo i Giganti agli Esteri e Bobby Solo alla Difesa? I democristiani e i socialisti della piccola repubblica indipendente avevano accolto la sua candidatura sia con enorme ilarità che con malcelato fastidio. “Questa freddezza fra i politici proprio non la capisco ed è ora di rimettere a posto le cose. Così non si può andare avanti e anche in questo senso potrei dare il mio contributo” aveva detto all’epoca Little T. I primi sondaggi lo avevano dato ad un inquietante 60% di preferenze. Le forze sanmarinesi, tramite un accordo sottobanco, avevano fatto sì che il Consiglio Grande e Generale lo escludesse dalla corsa alla presidenza con una leggina ad personam.

Ma Little T. non si era dato per vinto. Sapeva che la popolazione era con lui. Che i vecchi, soprattutto, erano con lui. E quando un popolo non è messo nelle condizioni di scegliersi il leader che vuole, allora è il leader che deve raggiungere il potere (in qualsiasi modo) per servire il suo popolo.

La scelta su come conquistare quel potere ricadde ovviamente su di me. Del resto, il mio curriculum di coup d’état parla chiaro. Guinea Equatoriale, 1972. Repubblica di Zangaro, 1974. Isole Comore, 1999. Thailandia, 2006. E infine Honduras, 2008. L’idea di fare un golpe a San Marino – e l’opportunità di rimanere in un paese che non concedesse l’estradizione alla Corte Penale Internazionale – mi eccitava alquanto. Diedi subito la mia disponibilità. Il gennaio del 2015 lo impiegai a reclutare e addestrare i miei catilinari. Scelsi dei vegliardi con l’Alzheimer in stadio iniziale: certo, era una scelta rischiosa, ma se le cose fossero andate male nessuno si sarebbe ricordato un cazzo. Per circa 10 giorni feci loro compiere una serie di “esercitazioni invisibili” sul modello trotzkista della rivoluzione d’ottobre: nuclei scelti di 3-4 vecchi entravano ed uscivano quotidianamente da banche, poste, stazioni ferroviarie, uffici pubblici, supermercati, caserme e centrali telefoniche. La stampa socialista e democristiana aveva ridicolizzato Little T. e la sua banda di consulenti militari e ottuagenari. I maggiori quotidiani avevano titolato: “E sarebbero questi i golpisti?” Anche questa volta, nessuno ci aveva creduto fino in fondo. Avrebbero pagato carissimo quell’errore.

Il 9 febbraio, giorno del compleanno di T., sferrammo l’attacco. Mentre il Consiglio Grande e Generale si riuniva in sessione straordinaria, tutti gli edifici strategici erano già stati occupati dai nostri uomini. La polizia era impotente: lo sparare contro malati, donne e paraplegici avrebbe comportato una reazione internazionale durissima. Verso le quattro di pomeriggio io e Little T., con tanto di banda armata di bambini congolesi al seguito, salimmo a Palazzo Pubblico per incontrare i Capitani Reggenti e tutti i vari Segretari di Stato. Erano sconvolti. Non gli era mai capitato nulla di simile nella loro placida e lanuginosa vita. Intimammo loro di rassegnare immediatamente le dimissioni e di consegnare tutti i poteri al nuovo Generalissimo di San Marino. Demmo loro 12 ore per esiliare e non mettere mai più piede nella Repubblica. Non batterono ciglio.

Il primo atto esecutivo del Generalissimo fu quello di abolire il Consiglio e di nominare i Giganti al Segretariato di Stato e Bobby Solo a quello della Vecchiaia & Cantautorato. Con un decreto (“L’Atto Del Rientro E Del Giradischi”) vennero espulsi tutti i residenti sotto i 70 anni e favorito lo spostamento forzato di moltissimi vecchi fans di T. a San Marino. “Finalmente il tempo di squallidi concerti a sagre friulane e case di cura molisane è finito”, declamò dalla sommità di Palazzo Pubblico il Generalissimo. Era il giorno della proclamazione dell’Impero Politico-Discografico, e quelle parole vennero accolte da una ventata di entusiasmo, infarti e guasti fatali ai peacemaker. Già, erano davvero finiti quei tempi cupi fatti di rimborsi spese in nero e depressione da nostalgia del boom. La vita a San Marino era scandita dal ritmo dello swing dei vecchi successi anni ’60. I vecchi scoppiavano di felicità, si sentivano giovani e concludevano ottimi affari con commercialisti e imprenditori di mezzo mondo, attratti dal nuovo regime di off-shore totale imposto dal nuovo presidente. Nemmeno io me la passavo male. Stavo tutto il giorno a scegliere puttane minorenni su siti russi sfuggiti alla censura del Cremlino e a spedire missive all’Interpol, descrivendo con dovizia di particolari tutti i crimini commessi in passato e vergando commoventi esegesi anatomiche di adolescenti ucraine, tagike e tatare.

Un giorno Little T. mi convocò nel suo ufficio. Doveva informarmi di un’importante decisione che aveva intenzione di prendere al più presto. “Voglio tornare a Sanremo.” La sua voce era ferma, risoluta. Io riuscivo a pensare ad una sola cosa: merda. Era il classico “Doomsday scenario”. Se mi avesse ordinato di bombardare a tappeto Tel Aviv avrei avuto meno problemi – e meno conseguenze. Ne ero certo: con questa storia di Sanremo avremmo passato tutti quanti guai seri. “Hai capito? Voglio tornare a Sanremo, e non come semplice concorrente, voglio proprio condurlo e vincerlo, tutto nella stessa edizione”. “Generalissimo – gli risposi – mi permetto di ricordarle che abbiamo stipulato un trattato bilaterale ben preciso con la Repubblica Italiana e con il ministro della Cultura Fiorello. Sanremo non si può toccare. È dominio esclusivo di Fiorello e Vincenzo Mollica. Rischiamo una ritorsione militare devastante”. Little T. non mi stava ascoltando: “E voglio anche tornare al Cantagiro. Voglio che si rifaccia il Cantagiro!” Cazzo, il Cantagiro no. Il Cantagiro era la fine. Il Cantagiro significava guerra termonucleare. Cercai di oppormi, ma il Presidente si sfilò un lucidissimo stivaletto bianco, lo poggiò sulla scrivania, estrasse la pistola dalla fondina bianca e cominciò a sparare sulla calzatura, cantando a squarciagola. Era il segnale inequivocabile che sul punto non erano ammesse discussioni.

La risposta di Fiorello e del governo italiano fu impietosa. Arrivò sull’account Twitter del ministro della cultura: “Non se ne parla. STOP. Non azzardatevi più a chiedere una cosa del genere. STOP. Abbiamo allertato milizie di confine. STOP. ROSICOOONIII”. Per rappresaglia, Little T. fece congelare tutti i conti bancari appartenenti a imprenditori e mafiosi italiani, e contestualmente minacciò di rendere pubblici i nomi dei politici di DC-Sesto Polo che si erano rivolti segretamente agli istituti di credito sanmarinesi per evadere le tasse e riciclare le mazzette. La mossa era al limite del suicidio. La guerra diplomatica: ormai totale. L’embargo fiaccò la popolazione, e le sacche del malcontento incominciarono ad essere infiltrate dagli agenti provocatori del Vaticano e dei servizi italiani. Riuscì a sventare una prima congiura di palazzo. Poi una seconda ed una terza. La quarta, probabilmente, sarebbe stata fatale. Nel frattempo l’Italia danzava sull’orlo del baratro. Gli imprenditori falliti si moltiplicavano esponenzialmente e a leggere i giornali pareva di essere ogni giorno a Jonestown. Little T. dava evidenti segni di squilibrio. Dopo aver visto una puntata de “Il più grande spettacolo dopo il weekend siamo noi – 8° edizione”, in cui Fiorello lo accusava di crimini contro l’umanità e di aver distrutto la musica italiana, il Generalissimo elaborò la sua Endlösung. Mi buttò giù dal letto alle 5 di mattina. “Dott. Barbie, prepari le sue squadre. Assaltiamo il Vaticano”.

“Moriresti per me?”

Sì, mio adorato, sì sì , è da 50 anni che muoio per te, e tu non te ne sei mai accorto, ma come potevi, del resto?, eri famoso, e impegnato, non te faccio una colpa, e chissà quante sgualdrine ti avranno avuto, quante donnacce avranno affondato le loro unghie affilate nei tuoi preziosi e bellissimi capelli, oh sì, voglio morire per te, ora. Il Generalissimo aveva accarezzato Clara, e a lei per poco non era scoppiato il cuore. “Allora sai come devi morire”. Sì amore mio, sì, lo so. Clara era arrossita in volto, e aveva chiesto a Little T. se poteva portarla nella “Balera 66” del Palazzo e cantarle un’ultima canzone – l’ultima canzone della sua vita.

Davanti San Pietro la folla è assiepata, in silenzio. Stanno aspettando il Papa. Clara è seduta su una sedia imbottita di esplosivo militare e non fa altro che pensare alla formidabile estate del ’63, quando a Spoleto si strusciava pudicamente su aitanti giovinastri della buona borghesia. Non fa altro che pensare a Lui. Ma ecco la sedia gestatoria ergersi nel cielo, il vestito bianco svolazzare e la benedizione scendere su tutti. Un lunghissimo corridoio si forma al centro della piazza, tagliandola in due, e Clara usa il suo handicap per farsi strada e raggiungere le prime file.

“Ora.”

La voce del Dott. Barbie gracchia nell’auricolare. È il momento. Clara piega il polso in avanti e il motorino della sedia emette il suo ronzio elettrico. Guardami, amore mio, guardami morire per te. Il boato è terrificante. La confusione indescrivibile. La folla ondeggia, cozza dappertutto, rotola avanti e indietro con degli urli selvaggi, si infrange come un’onda schiumosa sulle colonne, si disperde impazzita nelle vie limitrofe. Il clamore è assordante. È il clamore di un massacro.

Dentro al Palazzo Pubblico, invece, il silenzio è tombale. Non appena arriva la conferma via radio, il dott. Barbie si precipita nella stanza presidenziale per comunicare al Generalissimo il buon esito della missione. Da Little T. non proviene alcuna reazione. Sembra semplicemente sprofondato nella sua poltrona regale. Lo sguardo è fisso e vitreo. Sta mormorando qualcosa. O forse sta cantando. Barbie si avvicina. È una canzone. L’ultima canzone composta dal Generalissimo. I mastini della balera.

“La vittoria vada a coloro che hanno fatto la guerra senza amarla”, diceva Malraux. Fanculo Malraux, pensa Barbie. Io la guerra l’ho sempre amata.

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Drop the Hate / Commenti (2)

#1

F.F.
Rilasciato il 28.11.11

Chi non legge questo pezzo dovrebbe usare il “Vespasiano à la Barbie” .

#2

Charles Benson
Rilasciato il 01.12.11

Scusate il fuori tema,
ma per ogni cosa c’è una spiegazione…
http://uomoinpolvere.tumblr.com/post/13598653548/motherjones-inothernews
a proposito del twit sull’Iran

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