Questa Non È Un’Uscita

Pubblicato da Blicero il 11.05.2008

Questo referendum s’ha da fare

La junta non si è limitata ad ignorare il furibondo pericolo scaraventato dal cielo: sta facendo di tutto per far morire i suoi cittadini. Non è impreparazione o semplice imperizia dovuta alla funesta maestosità dell’evento. E’ una precisa, lucida e folle scelta politica. Asseragliati a Naypyidaw, i militari danno più importanza all’approvazione della nuova costituzione – la quale, scritta sotto loro dettatura, rafforzerà ancora di più la morsa soffocante del regime sul Paese – che alla salvezza dei loro sottoposti.

Gli aiuti, infatti, sono praticamente inesistenti: a Kungyangon, ad esempio, quattro giorni dopo la tempesta, i soldati si sono limitati a portare risibili derrate alimentari per poi rimanere ai bordi della strada a non far nulla. La comunità internazionale, nonostante il recente inasprimento delle sanzioni al regime, si è subito offerta per l’intervento umanitario. Ma i militari, ottenebrati da manie di persecuzione e da assurde paranoie, temono che dietro gli aiuti dei paesi occidentali si possa nascondere un rovesciamento del regime. Quindi niente visti d’ingresso nel paese, niente autorizzazioni all’atterraggio, ostacoli burocratici di ogni sorta che stridono fortemente, quasi urlando, con la drammaticità dell’immediato.

L’ONU ha programmato quattro voli, il primo dei quali è arrivato l’8 maggio. India e Thailandia – due paesi che hanno una stretta relazione con il regime – hanno subito cominciato a mandare cibo, medicine e altri viveri. La Francia ha proposto agli altri paesi occidentali di imporre in sede internazionale l’accettazione dell’intervento umanitario, mentre gli Stati Uniti stanno prendendo in seria considerazione l’ipotesi di sganciare comunque gli aiuti dagli aerei – una scelta coperta dal principio di diritto internazionale secondo il quale la “responsabilità di proteggere” a volte può e deve infrangere la sovranità nazionale di uno stato.

Intanto il tempo scorre inesorabile, impietoso. Le ore che scoccano assottigliano sempre di più, disperatamente, le misere aspettative di vita dei sopravvissuti.

La diplomazia del disastro

I disastri naturali, storicamente, hanno acuito le tensioni sociali ed i conflitti in corso oppure hanno portato alla luce nuove soluzioni. Ma nel caso della Birmania queste due eventualità appaiono remote: tutti i conflitti sono stati puntualmente repressi da una junta che negli anni ha dimostrato di volere tutto tranne che il bene della società; nuove soluzioni non sono prospettabili all’orizzonte, nonostante il ciclone. Appurata l’impotenza delle Nazioni Unite e dato per scontato il rifiuto totale dei generali al dialogo, una composizione internazionale del quadro politico è da escludere alla radice.

Sarebbe altresì profondamente ingiusto chiedere ad una popolazione stremata da quarant’anni di dittatura militare, affamata e crudelmente affogata da una natura soverchiante una rivolta autonoma su larga scala. Tuttavia, la devastazione che ha colpito le aree più produttive di riso porterà quasi sicuramente ad una crisi alimentare: in altri paesi, la penuria di questo genere alimentare ha portato a gravi disordini. A tutto ciò va unita la rabbia sempre più crescente e diffusa che la Birmania nutre verso un regime che ha seppellito la dignità di una nazione con massicce e reiterate violazioni dei diritti umani.

Non sono bastati i monaci. Neppure il violentissimo lamento della natura ha sortito effetti. La Birmania sta morendo. La Birmania è dissanguata. La Birmania è senza speranza. E tutto questo sta accadendo di fronte a noi. Non si può scostare lo sguardo, non si può più ignorare senza finire nella complicità. E’ necessaria un’azione radicale, risolutiva, definitiva. Ora.

L’infame e vergognosa orgia del potere militare va fermata con ogni mezzo. Il capitolo VII della Carta ONU è limpido: ogni minaccia alla pace va stroncata. Ogni minaccia: che si chiami Saddam o Than Shwe, è lo stesso. Prima che sia troppo tardi, anche fuori tempo massimo. Pace.

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Drop the Hate / Commenti (6)

#1

Last K's Voice
Rilasciato il 11.05.08

Purtroppo non c’e’ limite alle crudelta’ di una dittatura. Federico Rampini scrive che i generali birmani utilizzano gli aiuti umanitari spacchettandoli e rimpacchettandoli mettendo il loro simbolo (cosi’ che la popolazione creda li mandi il governo), ovviamente in questa operazione spariscono nelle tasche dei funzionari una certa parte di aiuti. Spero veramente l’Onu si dia da fare per entrare a portare gli aiuti del Pam, dovesse usare la forza, ma tanto non lo fara’. Sempre per quella storia del diritto di veto che blocca tutto alle Nazioni unite.

#2

LPR
Rilasciato il 11.05.08

Aggiornamento sulle cifre da corriere.it:

“Sarebbero almeno 220.000 le persone mancanti tuttora all’appello in Birmania dopo il passaggio del ciclone Nargis, il 2 maggio scorso: lo ha reso noto, con un comunicato ufficiale diffuso da Bangkok, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari. «Il numero di morti – aggiunge l’Onu – può andare dai 63.290 ai 101.68».”

#3

La Birmania dimenticata >> Terzo occhio.org
Rilasciato il 12.05.08

[…] C’era un tempo, che sembra ormai lontano, in cui la Birmania (Myanmar) sembrava essere qui vicino quasi dietro l’angolo. Su internet i blogger – sempre questi cazzo di blogger – urlavano/urlavamo l’uno più forte dell’altro per far capire a tutti gli altri che “io sono più solidale di te, tiè” – vedi il post di Kiappone. A quel tempo conveniva essere solidali, perchè i giornali ne parlavano. Oggi che la tragedia a Myanmar è ancora più grave tutti muti: 220.000 morti circa, blocco degli aiuti da parte degli USA. I giornali ne parlicchiano, dai telegiornali la Birmania-Myanmar è sparita. Oggi se non sei visibile, non esisti. Non avrei trovato parole migliori, per cui faccio mie le parole de [http://www.laprivatarepubblica.com]La Privata Repubblica[/url]:”Quando le tonache zafferano sfilarono all’ombra delle dolorose pagode birmane, lo scorso settembre, il mondo intero ebbe un sussulto. “Lo fanno per la democrazia! Viva la libertà! Supportiamo la rivoluzione mettendo un bel ribbon sui nostri blog, servirà tantissimo ai monaci!” Il risultato è noto: il moto popolare affogato nel sangue (come già era successo nel 1988), il flusso informativo paralizzato – si, persino nell’era di internet – e la Birmania schiacciata in maniera ancora più opprimente sotto il tallone d’acciaio della junta criminale.Passati i mesi, la notizia finiva nell’oblio: i blogger toglievano i banner dalle loro colonne; la comunità internazionale tentennava, come al suo solito, senza riuscire ad imporre alcunchè ai generali; il regime si consolidava, preparando il prossimo referendum costituzionale farsa. Ora il Myanmar è un inferno sommerso dalla furia rabbiosa ed implacabile degli elementi. Il ciclone Nargys ha spazzato via interi villaggi di cartapesta, ha reclamato decine di migliaia di vite umane, ha reciso in maniera probabilmente definitiva il rapporto tra il paese ed il resto del mondo, già di per sè molto labile, e l’ha fatto precipitare in una crisi umanitaria gravissima, dagli esiti drammatici ed imprevedibili.Lo sapevamo già, ma pazienzaOvviamente la colpa del ciclone non può essere imputata ai militari. Ma la negligenza e l’impreparazione delittuose, quelle si. Nessun cittadino birmano sapeva infatti che cosa si sarebbe abbattuto sul delta dell’Irrawaddy. Nessuno sapeva che Rangoon e dintorni sarebbero diventati un cumulo acquitrinoso di macerie e di cadaveri.Eppure già dal 29 aprile, tre giorni prima della tragedia, i bollettini della marina e dell’aviazione statunitensi avvertivano che una violenta tempesta si sarebbe abbattuta sul Myanmar sudoccidentale, così come aveva lanciato l’allarme, due giorni prima, anche il dipartimento meteorologico dell’India.Ma i militari non si sono curati dell’allerta: a parte messaggi molto generici trasmessi alla televisione di stato, non è stata predisposta nessuna evacuazione, nessuna misura di precauzione o di prevenzione. Data la particolare conformità del terreno birmano e la fatiscenza delle infrastrutture, il dramma non aspettava altro che la sua consumazione. Continua a leggere su La Privata Repubblica “Questa non è un’uscita” […]

#4

AkillerDee
Rilasciato il 14.05.08

Mai tanto azzeccato quanto spiazzante il titolo-citazione (così presumo) da American Psycho di Bret Easton Ellis “questa non è un’uscita”.

Nel libro era la fine – non fine della storia,qui l’inizio – non inizio.

#5

LPR
Rilasciato il 14.05.08

Si, è la fine del libro – “THIS IS NOT AN EXIT”.

Forse potrebbe essere l’uscita del regime birmano, ma ho forti dubbi in merito.

#6

Gran Prix Du Zimbabwe. Robert Mugabe, lo Zimbabwe e la comunità internazionale - La Privata Repubblica
Rilasciato il 30.06.08

[…] prestigiosa gara che ha luogo ogni qualvolta che qualche junta militare decide di massacrare la sua popolazione o quando è da decenni che si scatenano guerre civili, pulizie etniche, genocidi […]

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