Du Bist Was Du Isst

Pubblicato da Blicero il 23.04.2008

La sofisticazione alimentare, questa sconosciuta. Sconosciuta, perlomeno, alla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica. Conosciutissima, invece, negli ambienti della criminalità organizzata. Grande o piccola che sia: la pratica dell’adulterazione degli alimenti, del resto, richiede comunque un minimo di struttura organizzativa. Richiede canali di riciclaggio, vie preferenziali per la distribuzione, trasporto e smercio – anche, e soprattutto, a livello internazionale. Richiede complicità. Richiede rispettabilità.

Qualche mese fa è uscito un libro, Mi fido di te (scritto a quattro mani da Carlotto e Abate), che ha provato a puntare i riflettori su detto scenario. Un mondo oscuro, sfuggente, impenetrabile, per natura spietato. Lo ha provato a fare nell’unica maniera possibile: con la letteratura. Solo una visione d’insieme artefatta dalla composizione fictionale e contraffatta da strumenti non meramente cronachistici poteva rendere comprensibile il fenomeno. Il procedimento: ricomporre i vari pezzi che, di tanto in tanto, si manifestano sotto forma di escrescenze purulente nella superficie della vita pubblica.

Vongole gusto petrolchimico. Latte alla diossina. Pesce all’ammoniaca. Banane a gas. E chi più ne ha, più ne metta. Ci vuole fantasia, nel mercato della sofisticazione alimentare. Perché qua si parla, indubbiamente, di un mercato. Regolato, pertanto, da un suo codice deontologico e professionale. Non scritto, ovviamente. Le varie mafie (specialmente la camorra, in questo momento la più ferrata in materia) si sono buttate a capofitto nel mercato del cibo guastato. Dove ci sono affari, del resto, la presenza mafiosa è data per scontata. Specialmente se questi affari sono facili da realizzare – massimo profitto/minimo sforzo.

C’è più di un analogia tra sofisticazione e sabotaggio del ciclo dei rifiuti. I rifiuti sono ciò che produciamo, che l’intera società produce. Il cibo è ciò che mangiamo. Il cibo, e poi i rifiuti. L’alterazione della fisiologia dell’alimentazione e dello smaltimento e stoccaggio degli scarti della vita urbana e industriale possono portare solamente verso una direzione: all’autodistruzione. Autodistruzione che è al contempo fomentata ed incoraggiata dai meccanismi dell’economia; i quali, a loro volta, sono drogati e avariati dal grasso untuoso, viscido e vischioso della malavita.

E’ un circolo vizioso: la produzione è appaltata alla società; la criminalità organizzata si infiltra nelle procedure di distruzione e, con i proventi illeciti, la stessa risale il canale economico a ritroso fino ad arrivare alle foci della produzione stessa. Cioè ad inquinare a cascata, in un moto che è al contempo ascensionale e discendente, l’intera società, l’intero flusso economico. Così si arriva al disfacimento indotto da agenti esterni. La riprova viene da un’intercettazione tra due sedicenti venditori: “La produzione merda al mercato nazionale, la merdaccia a quello greco”. La parola chiave: merda.

La merda che viene pompata nel mercato. La merda che si mangia. La merda che dovrebbe essere il risultato dell’intero processo digestivo e, per traslazione, di quello produttivo. Invece non è così. La merda viene prima, è la fonte. E così succede che una minoranza criminale, piratesca e senza alcuno scrupolo, si stia facendo gestore della vita della maggioranza. Intossicandone gli usi, cariandone i costumi, spargendo tra questa un vivo sgomento. Scrive Massimo Carlotto: “Il sistema va inquadrato all’interno di gruppi ben strutturati che hanno individuato nella sofisticazione un settore in continuo sviluppo: si fanno soldi a palate, si rischia meno che trafficare in stupefacenti. L’equazione: si immette sul mercato cibo di improponibile qualità, costi dunque bassi, e lo si rivende al giusto prezzo.”

Le operazioni di questi anni dei Nas e dei Nac hanno tracciato una mappa che parte dal Lazio e che avvolge come un mantello Campania, Calabria, Puglia, Sicilia e che estende i suoi lembi fino alla Basilicata. E non solo: anche in Veneto ed in Piemonte si lavora a ritmo serrato. Spesso e volentieri, però, la ‘materia grezza’ da sofisticare, affinare e poi rivendere arriva da lontano. Recentemente sono saltati fuori miele moldavo zeppo di pesticidi, sale nordafricano al colibatterio fecale, importazioni di concentrato di pomodoro semplicemente inservibile dalla Cina. Nulla di cui stupirsi: la carta vincente di questo tipo di attività è la flessibilità, la rimodellabilità, l’estrema versatilità nel reimpiego dei prodotti.

In tempo di pace, insomma, non si butta via niente. Mai. C’è una punta di grottesco in tutto ciò: la sofisticazione presuppone un’inutilizzabilità a priori; nel senso che i cibi fanno già schifo prima di essere trattati. Anzi, di più: vengono trattati proprio perché fanno schifo, perché sono marci, da buttare. E sono ancora gli operatori del settore ad offrirci il sentore di nequizia che esala dal mondo della contraffazione agroalimentare. Dall’operazione “Meat Guarantor”, condotta dai Nas campani, spunta fuori un’interessante intercettazione, in cui un macellaio si lamenta del fatto che “la carne non si riesce a vendere, è verde dentro, è tutta verde”. Il venditore, di contro, gli dice: “Realizza i quarti, realizza qualche cosa. C’è sempre un po’ di carne che si può recuperare… In qualche maniera… Macinata…”

Realizzare qualche cosa. Immettere il veleno. Ampliare il giro d’affari. Accatastare profitto. Accantonare utili. I soldi, la merda, i rifiuti, il cibo. Questi sono i confini entro cui muoversi, se si vuole avviare e mantenere una simile impresa criminale. “La vitella puzza“? E tu vendila comunque. Perché tu sei quello che mangi. Il resto, conta poco.

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