Io, Picchiatore Fascista

Pubblicato da Blicero il 10.02.2009

Picchiatori Fascisti

“Per quanto potevo ricordare ero sempre stato fascista. In modo naturale, ineluttabile, come si digerisce, come si respira. Ero un bravo bambino borghese, benvestito, educato. Una famiglia di militari […]. Fascisti? Dipende da cosa si intende per fascismo. Allora, per me, s’identificava con le aquile, la camicia nera, l’immagine e i discorsi del Duce.”

Roma, 1953. Giulio Salierno è un attivista fascista di punta della sezione di Colle Oppio del MSI che divide la sua giovane esistenza (18 anni) tra la lotta politica del dopoguerra, il pugilato, i dibattiti, le risse con i comunisti e i celerini e una missione da portare a termine: uccidere Walter Audisio, il “comandante Valerio”, presunto esecutore di Mussolini. Ma in politica non conta quello che è accaduto realmente. Conta quanto la gente crede che sia successo: chi ha premuto il grilletto è un problema che riguarda solo gli storici. Politicamente è del tutto irrilevante.

C’è un aneddoto che delinea bene l’intera questione. Sempre in quegli anni, una delegazione di deputati missini incontra il generalissimo Franco. Questo, meravigliato, chiede loro: “Com’è che i fascisti italiani non hanno ancora eliminato Walter Audisio?”

Il problema Audisio, infatti, riguarda non solo l’eventualità di rimanere confinati all’estrema periferia della costituzionalità (e non esisteva ancora il concetto di “gentifricazione”), ma rappresenta anche una tormenta ideologica che scuote impetuosamente il fragile arbusto identitario del partito neofascista. Salierno, sbarazzandosi di Audisio, vuole spalancare gli occhi del MSI, fissarli con dei divaricatori, serrarli, sgranarli e metterli di fronte a due alternative antitetiche: vendicare il Duce e il fascismo; cercare di entrare nella legalità “democratica” tramite accordi sottobanco con la DC e, di conseguenza, rinnegare il ventennio e la RSI.

Ma i propositi di Salierno falliscono miseramente: l’attivista missino compie una rapina sconclusionata e ammazza un giovane, abbattendo per sempre quel muro sottilissimo che separa la violenza politica dalla criminalità comune. Una soffiata proveniente dalle fila del partito indica alla polizia i responsabili di quel delitto e, dopo un fugace arruolamento nella legione straniera, per Salierno inizia il girone infernale delle carceri: prima quelle algerine, poi quelle italiane. “Autobiografia di un picchiatore fascista“, uscito per la prima volta nel 1976 e ristampato recentemente, è la storia vera della caduta di un uomo e del susseguente percorso di redenzione/riabilitazione che culminerà in una delle figure più importanti della sociologia italiana.

La razionalizzazione della violenza

Pisciai nel bugliolo. Per combattere l’odore di orina e di sterco accesi un pezzo di carta e lo infilai nel vaso. Avevo scoperto la violenza del carcere. Fuori credevo fossero le bombe e le armi, in prigione mi ero accorto che l’unica vera, concreta violenza era quella di chi, tuonando contro la stessa, si serviva delle carceri e dei manicomi per liquidare i deboli, i ribelli e ammonire gli altri. Il potere era il bugliolo e il nemico il sistema che lo imponeva. Avevo creduto che Audisio fosse un bersaglio, mentre lo ero io.

Il MSI raccontato da Salierno è un partito parcellizzato, agitato da lotte correntizie e giochi di potere più o meno grandi. I vertici sono tutti occupati a ripulire la facciata per guadagnarsi una rispettabilità democratica agli occhi dell’opinione pubblica. La base si muove in una direzione completamente opposta: ogni azione è reazione, e ogni reazione si riversa inevitabilmente nella violenza. La violenza che, come dice Evola, “è l’unica soluzione possibile e ragionevole”. La violenza vista come mezzo razionale e purificatore. La violenza che presuppone però una certa intelligenza, che deve essere usata come tecnica politica, come ideologia, se necessario anche come filosofia. Sparare ha lo stesso valore che fare a pugni. Una bomba non è più una bomba, un attentato non è più un attentato, una strage non è più una strage.

PNF

Questo, a differenza di quanto dice Sergio Luzzatto nella prefazione, non è un libro inattuale, fuori dal tempo – “guardate com’eravamo cinquant’anni fa, com’era tutto diverso e brutto e inquinato dalla politica più deleteria!” Tutt’altro: questo è un libro di provocatoria attualità. Salierno indica chiaramente, partendo dalla sua esperienza di vita, le prime scintille di quella strategia della tensione che esploderà (letteralmente) negli anni ’70, ma che ha il suo innesco negli anni ’50. Lo spiega perfettamente un camerata del futuro sociologo comunista:

Non sono un sadico, nè un sanguinario, nè tantomeno affetto da mania omicida. Il mio è un discorso politico, esclusivamente politico…Noi dobbiamo smontare dalle fondamenta il baraccone in cui viviamo e constringere i partiti, MSI compreso, a mettere le carte in tavola. Mostriamo agli italiani quanto debole, impotente, incapace sia il governo; denunciamo alla classe operaria il bluff del partito comunista, in cui s’identifica e crede. Facciamo saltare in aria un po’ di gente e il popolo italiano potrà constatare che l’intera classe politica, governo e opposizioni, è capace solo di parole, parole, solo ed esclusivamente parole [ciao Walter!!1, ndr].

La repressione è il nostro vaccino

Se negli Stati Uniti è stato elaborato il neoconservatorismo ed in Francia il gollismo, in Italia c’è stato il vuoto: la destra (MSI/AN), liberandosi a parole dell’identità fascista, è rimasta completamente priva di ogni punto di riferimento dottrinale e culturale.

Il neofascismo non è un residuo nostalgico/inquietante/eversivo del passato. E’, al contrario, uno dei fattori oppressivi con cui la classe dominante reprime chiunque cerchi di affrancarsi dal sistema, in un modo o nell’altro. Compresi gli stessi fascisti, come lo era l’autore all’epoca. La destra in Italia non avrà mai credenziali anti-sistema, semplicemente perchè è totalmente organica ad esso.

Come fascista, mi ero illuso di essere fuori dal sistema, mentre c’ero dentro fino al collo. Io e gli altri attivisti, compiendo attentati e aggredendo i rossi, eravamo persuasi di agire nell’interesse della nazione; invece difendevamo il profitto di pochi. […] Ciò a cui l’assetto di potere mirava non era colpire e punire il fascismo, ma una certa immagine di fascismo.

E mentre il potere puniva una certa immagine di fascismo, contemporaneamente ne portava avanti un’altra, molto più subdola e strisciante. Creava un mito, ed un mito non per forza dev’essere giusto, bello, morale o vero: basta che colpisca, sia verosimile e convincente – ovviamente non sul piano razionale, ma su quello emotivo e inconscio.

Allora lo si faceva con i depistaggi, con gli opposti estremismi/terrorismi e con la destabilizzazione stabilizzante (o meglio: teoria della sopravvivenza). Ora quest’immagine viene pubblicizzata attraverso il linguaggio televisivo per essere poi veicolata come pensiero unico –  un’omologazione narcotizzante che scintilla sulle canne dei fucili dei soldati in piazza Duomo, che ristagna in una pozza di sangue a Genova e che proietta il suo riflesso sul mare che avvolge Lampedusa come una placenta.

(Pubblicato anche su Giornalettismo)

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Drop the Hate / Commenti (3)

#1

inaudita altera parte
Rilasciato il 11.02.09

Verosimile, ma errato quando afferma il vuoto italiano!!

Se si vuole fare una riflessione sociologica, però, è necessario non censurare nulla!

#2

Fede
Rilasciato il 20.02.09

bell’articolo

#3

sergio
Rilasciato il 15.09.09

poveri imbecilli che siete

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